È una memoria impossibile quella delle stragi di mafia. Anche perché di memoria è impossibile parlare nel momento in cui ci sono indagini ancora aperte e questioni che, almeno a giudizio di diversi uffici giudiziari, ancora non sono state chiarite. Oggi, «Giornata della legalità», anniversario della strage di Capaci del 1992, quando persero la vita Giovanni Falcone, sua moglie Francesca Morvillo e tre agenti della scorta (Vito Schifani, Rocco Dicillo e Antonio Montinaro), il cartellone degli eventi commemorativi è ovviamente pieno. La commissione parlamentare antimafia si riunirà proprio a Capaci in seduta straordinaria. Poi è previsto un corteo, e tante autorità si faranno vedere a Palermo. Non ci sarà Alfredo Morvillo, fratello di Francesca ed ex magistrato. Un anno fa non partecipò alle cerimonie in polemica.

«Quest’anno – dice al manifesto – non mi hanno invitato, quindi il problema non si è posto». Un problema? Solo fino a un certo punto: «Tanto si tratta delle solite cose… La verità è che non è cambiato molto in questi 32 anni. Dopo il successo del momento repressivo, con tanti latitanti che sono stati arrestati, il vero cambiamento passerebbe per l’affermazione di un momento che potremmo definire sociale». Insomma, se di arresti importanti e condanne pesanti ne abbiamo visti molti – ultima, nel gennaio del 2023, la cattura di Matteo Messina Denaro -, quello che manca è il discorso che si fa fuori dalle aule di giustizia. «La vita della città di Palermo – prosegue Morvillo – è condizionata dalla mentalità mafiosa. Ma la gente non può trovare da sola la forza per liberarsene, c’è bisogno di modelli, di segnali, di persone credibili. Dai governanti, debbo dire, purtroppo tutto questo non arriva. Al contrario si notano molti segnali di convivenza». Qualche esempio ci sarebbe pure, dice ancora Morvillo: «Penso a padre Puglisi, il cui lavoro andrebbe compreso e rilanciato. Bisogna andare nelle zone dove è sin troppo facile cadere preda della logica mafiosa. Ma servirebbero persone in grado di farlo, come Falcone e Borsellino, che oltre all’attività repressiva, sono stati anche capaci di trainare lo stato sulle loro posizioni».

CI SONO poi delle inchieste ancora aperte, come quella di Firenze, che vorrebbe far luce sulle stragi del biennio 1993-1994. Giusto martedì è uscita fuori la notizia dell’ennesima indagine a carico del generale Mario Mori, ex comandante del Ros ed ex capo del Sisde, accusato questa volta di non aver fatto abbastanza per evitare le stragi. In passato era stato processato (e assolto cinque volte) per il motivo opposto: aver tramato con le cosche per cercare di fermarle. «Ci sono molti misteri ancora aperti – commenta Morvillo -, se i magistrati ritengono di dover indagare ancora è giusto che lo facciano senza lasciare nulla di intentato. È lecito pensare che esista chi sa delle cose ma non le dice ancora. Bisogna avere fiducia nel nostro sistema giudiziario e anche nelle sue garanzie». Il teorema alla base del lavoro dei pm Luca Turco e Luca Tescaroli ricorda molto da vicino quello del processo sulla cosiddetta trattativa stato-mafia, definitivamente naufragato in Cassazione, dove è stato sentenziato che la trattativa tra investigatori e cosa nostra c’è stata, ma non costituisce reato. E che il resto è un’interpretazione storica priva di rilevanza giudiziaria. Ecco, la storia che si vuole raccontare è quella di una serie di bombe che sarebbe servita a mettere in crisi l’allora governo Ciampi per spalancare le porte alla successiva discesa in campo di Silvio Berlusconi. Che infatti fino alla sua morte era iscritto nel registro degli indagati della procura di Firenze (dove c’è ancora il nome di Marcello Dell’Utri).

PUÒ UNA TESI storiografica – peraltro quantomeno opinabile – fare da base a un’indagine? Mettere sotto processo la Repubblica è un obiettivo che molti investigatori si sono posti durante la loro carriera. Sin qui nessuno ha ottenuto risultati davvero significativi. La verità, per sua natura, esce sempre e solo a pezzi.