Strage di via D’Amelio, i figli di Borsellino contro Chigi e Viminale
Trentadue anni dopo «Sono responsabili civili per i depistaggi». Sotto accusa 4 poliziotti Tra assoluzioni e prescrizioni, torna il teorema della trattativa. Fuori dai tribunali non si fermano le polemiche incrociate sull’anniversario
Trentadue anni dopo «Sono responsabili civili per i depistaggi». Sotto accusa 4 poliziotti Tra assoluzioni e prescrizioni, torna il teorema della trattativa. Fuori dai tribunali non si fermano le polemiche incrociate sull’anniversario
Quattro poliziotti che rischiano di finire sotto processo per aver depistato le indagini sull’attentato in cui perse la vita Paolo Borsellino, il 19 luglio del 1992, in via Mariano D’Amelio, a Palermo. I figli del giudice che si costituiscono parte civile e citano come responsabili per il risarcimento dei danni la presidenza del Consiglio e il ministero dell’Interno. E l’avvocato dello Stato Giuseppe La Spina che a sua volta vorrebbe costituire come parte civile la presidenza del Consiglio e il ministro della Giustizia, e come parte offesa il ministero dell’Interno.
Sono questi gli ingredienti dell’udienza preliminare andata in scena ieri a Caltanissetta, e rinviata dal gup David Salvucci al prossimo 19 settembre. L’ombra che aleggia su questo ennesimo capitolo giudiziario della stagione stragista di Cosa nostra è sempre lo stesso: la presunta commistione delle istituzioni con la mafia siciliana.
Di fatto, l’indagine contro i poliziotti Maurizio Zerilli, Giuseppe Di Gangi, Vincenzo Maniscaldi e Angelo Tedesco è la prosecuzione con altri mezzi del teorema sulla trattativa Stato-mafia, sconfessato dalla Cassazione nel 2023 dopo che, due anni prima, la corte d’Appello di Palermo aveva assolto tutti gli esponenti delle istituzioni tirati in mezzo.
IL CASO di via D’Amelio si muove su binari paralleli: i quattro poliziotti erano stati chiamati a deporre nel processo che vede imputati, sempre per depistaggio, altri tre investigatori (Mario Bò, Fabrizio Mattei e Michele Ribaudo), ma i loro numerosi «non ricordo» hanno portato la procura a iscriverli nel registro degli indagati per falsa testimonianza.
Nuovamente convocati dai magistrati, i quattro si sono avvalsi della facoltà di non rispondere e da lì si è ipotizzato il reato di depistaggio. Da notare che il processo di primo grado a Bò, Mattei e Ribaudo era finito con la prescrizione dei primi due e l’assoluzione del terzo.
Il pm di Caltanissetta Maurizio Bonaccorso, però non si era arreso: le indagini su via D’Amelio furono depistate. E non «per una banale voglia di fare carriera ma per agevolare Cosa nostra», ma per un vero e proprio «tradimento da parte degli apparati dello Stato non solo verso Borsellino ma anche verso gli agenti della scorta». Un mese fa, però, in Appello, è arrivata una nuova sconfitta: non luogo a procedere per avvenuta prescrizione. Portare alla sbarra Zerilli, Di Gangi, Maniscaldi e Tedesco è, di fatto, un modo per provare ancora una volta a riaprire la vicenda malgrado le sentenze sfavorevoli accumulate nel tempo.
«CONTINUIAMO il nostro impegno in ogni sede e in ogni ambito alla ricerca della verità. Fiducia nelle istituzioni e nella magistratura in particolare.
Questa ulteriore appendice sul depistaggio che nasce dal troncone principale costituisce una parentesi importante rispetto al coinvolgimento in quella stagione stragista, sullo sfondo, comunque, di uno scenario che sembra coinvolgere numerosi altri livelli istituzionali», ha detto ieri l’avvocato (e marito) di Lucia Borsellino, Fabio Trizzino.
Con un’ulteriore precisazione sul tentativo di coinvolgere palazzo Chigi e il Viminale: «È un passaggio tecnico, non politico». Anzi, i rapporti con l’esecutivo di Meloni sono idilliaci. «Colgo l’occasione – ha aggiunto – per ringraziare questo governo che, per primo, in sede di commissione antimafia ha dato parola ai figli del giudice Borsellino».
Da Fratelli d’Italia, Giovanni Donzelli si è affrettato a ricambiare la dimostrazione d’affetto: «Serve lavorare in silenzio per combattere a voce alta la mafia. Senza polemica accogliamo le parole della famiglia Borsellino, che ha ringraziato il governo e il lavoro della commissione Antimafia che ha dato per la prima volta alla famiglia la possibilità di parlare in commissione: non speculiamo su queste parole ma le accogliamo nel nostro cuore».
In tutto questo, Salvatore Borsellino, fratello del giudice Paolo, da un lato concorda sul fatto che non sia stata fatta piena luce sui fatti di via D’Amelio, da un altro definisce «una passerella» l’iniziativa organizzata dalla Fondazione Falcone con l’Aig (l’Agenzia italiana per la gioventù) proprio per il 19 luglio e da un altro ancora non risparmia critiche a Meloni e ai suoi: «Assistiamo agli attacchi che vengono portati quotidianamente dallo stesso governo all’indipendenza della magistratura».
L’AVVICINARSI dell’anniversario della strage come al solito porta con sé la sua bella dose di polemiche. Succede, ogni anno, anche a maggio, quando si ricorda il massacro di Capaci in cui a morire fu Giovanni Falcone. Se dentro ai tribunali si ammucchiano indagini su indagini e processi su processi senza risultati rilevanti, fuori la memoria continua ad essere un campo di battaglia.
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