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Storia di Rosa Maria Ortega e altri piccoli abominii

Storia di Rosa Maria Ortega e altri piccoli abominiiProteste anti-Trump in Messico – LaPresse

Pulizia etnica nella «nuova America» Prime retate nelle grandi città e una condanna esemplare quanto surreale per «frode elettorale». Immagine simbolo dell’involuzione eversiva in atto, il bimbo anti-messicani in divisa da "Trumpjugend" intervistato dalla Fox. Psicosi migranti senza freni

Pubblicato più di 7 anni faEdizione del 15 febbraio 2017
Luca CeladaNEW YORK

Continua l’inesorabile marcia di piccoli abominii che trascinano questa «nuova America coraggiosa» verso l’abisso. Nel novero sono entrati per ultimo i raid di pulizia etnica nelle grandi città e una condanna esemplare in un processo per frode elettorale.

QUEST’ULTIMO CASO è la storia di Rosa Maria Ortega, una donna texana ispanica di 37 anni, madre di quattro figli e titolare di una green card, il permesso di residenza  permanente ottenuto dopo essere giunta nel paese da neonata a seguito di immigranti dal Messico. Ortega è stata arrestata per aver votato nelle elezioni del 2012; dopo un processo per direttissima un giudice di Fort Worth l’ha condannata  a 8 anni di reclusione e alla successiva espulsione sommaria dal paese. Coi figli dati in affidamento, fra otto anni Ortega verrà deportata in Messico, un paese che non conosce e in cui non ha mai vissuto. Questo per aver compilato l’affermativo dei questionari di cittadinanza che le autorità spediscono a casa di ogni residente prima delle elezioni.

Ortega, che non ha studiato oltre le elementari, ha sostenuto di non aver capito che l’iscrizione alle liste di voto fosse riservata ai soli cittadini. Spiegazione che non ha convinto il pubblico ministero che ha chiesto una pena esemplare per frode elettorale.

LA SENTENZA oltre ogni misura (casi simili in precedenza sono stati aggiudicati con sanzioni o avvertimenti) è l’ultimo atto di guerra nell’offensiva anti-immigrati di Trump, una punizione che in particolare si collega alla più farneticante narrativa trumpista, quella dei «milioni» di elettori clandestini che avrebbero sbilanciato il voto popolare a favore di Hillary Clinton.

ECCO QUINDI ORTEGA, utile simbolo del complotto per sobillare il processo democratico, esponente dei fantomatici «3-5 milioni di messicani votanti», ossessivamente denunciati dal presidente. Rimane per ora la singola donna, capro espiatorio di una finzione megalomane, condannata da un procuratore repubblicano che ha fatto dei voti clandestini un cavallo di battaglia politico. La sua vita immolata nel nome di un complottismo strumentale che ignora anche un dettaglio cruciale –  l‘effettiva  preferenza espressa da Ortega in quelle fatali elezioni: repubblicana in entrambi i casi.

Nella dialettica post-fattuale sono dettagli che non contano e i portavoce della Casa Bianca continuano a insistere sulle «migliaia di vite americane salvate» dal giro di vite. In questo film immaginario rientra la madre annientata in Texas quanto i raid  iniziati nei grandi centri urbani come diretta rappresaglia contro la sentenza che ha bloccato il Muslim Ban. Le retate non sono una novità. Le deportazioni sono state  centinaia di migliaia anche sotto Obama, ma quelle di Trump contengono la sinistra minaccia di un regime per cui la pulizia etnica è programmatica. I raid ufficialmente contro «criminali» prendono di mira in realtà molti di quei milioni che vivono nella zona d’ombra fra clandestinità e cittadinanza. Milioni che come Ortega vivono in questo paese letteralmente da una vita.

NON CONOSCONO ALTRO PAESE, lavorano e pagano tasse, sono parte integrante – ed essenziale – dell’economia, possono addirittura combattere (e in moltissimi lo fanno) per l’esercito americano ma non hanno diritto di cittadinanza. Solo fra gli studenti universitari ce ne sono un milione (temporaneamente amnistiati da Obama) e il senso ora nei barrios ispanici è che ognuno può in qualunque momento diventare bersaglio delle ronde. Nel melting pot il panico seminato apposta è un atto di terrorismo governativo destinato a creare il caos.

D’altronde nella lucida follia perorata da Bannon e dal gruppo ideologico di Trump, la disintegrazione sociale è un passaggio della necessaria purificazione. E per innescare il processo quale miglior leva che la collaudata psicosi dell’untore straniero, infallibile veicolo per scoperchiare gli istinti peggiori di una nazione che una pericolosa propensione nazionalista  ce l’ha comunque nel Dna?

L’INFALLIBILE STRATEGIA fascista si manifesta ora con il suo immancabile corollario iconografico: come la raccapricciante «intervista» trasmessa dalla Fox a Jacob Silva, 9 anni, il «più giovane sostenitore di Trump» che in diretta ha spiegato che gli immigrati «hanno armi e droga, ci vogliono far male». In divisa da Trumpjugend, con cravatta, nastro tricolore e cappelletto trumpista d’ordinanza anni, il bimbo-giustiziere è apparso nella canonica scenografia da confessione  nordcoreana. «Il muro è necessario» ha recitato fra i sorrisi dell’intervistatore.

Immagini inequivocabili sull’involuzione eversiva,  «inimmaginabile» ma in fondo non così  sorprendente in una nazione così dedita al culto patriottico di se stessa, in cui solo il 36% dei cittadini hanno un passaporto e i bambini, con la mano sul cuore, giurano fedeltà alla bandiera ogni mattina.

MESSE IN CONTO le famose legittime recriminazioni  di una working class sventrata dalla globalizzazione, il trumpismo esplicita l’orrore nel ventre d’America – il sonno della ragione che genera mostri. Che permette loro, dopo mesi di demagogia, di passare oggi ai fatti: le retate, i processi spettacolo, le punizioni esemplari.

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