Ci diamo appuntamento di fronte all’ingresso di un fast food americano poco lontano da metro Pochaina, sul viale che prima si chiamava “Mosca”, ma da sette anni a questa parte porta il nome di Stepan Bandera. In poche parole in questo angolo di Kiev c’è buona parte di quel che l’Ucraina ha vissuto negli ultimi tempi: l’economia globalizzata con il tempio delle patatine fritte, un eroe fascista riabilitato e canonizzato e qualche blocco di cemento sistemato ai bordi della strada. Dopotutto siamo su una via di accesso alla città e il confine con la Bielorussia sarà a un paio d’ore d’auto.

SUL PUNTO MIKHAILO, quarant’anni e una carriera bene avviata in campo accademico prima di prendere le armi per difendere la patria, ha certezze notevoli: «I russi non vinceranno mai perché noi non ci arrenderemo mai», dice masticando un panino al pollo. Per quanto riguarda Bandera, ritiene singolare il fatto che il suo nome in tutte le lingue romanze somigli così tanto al termine «bandiera». «Per noi ucraini è esattamente quello. È un simbolo di unità nazionale, è il simbolo che ci guiderà alla vittoria. Che cosa c’è di strano?».
C’è di strano che Bandera fuori da questo paese significa ben altro. Per i polacchi è l’uomo che negli anni Trenta organizzò l’assassinio di un ministro degli Esteri e l’eccidio di migliaia di civili nella regione dei Carpazi. Per Israele è il criminale di guerra che ha compiuto per conto delle SS stragi spaventose sul fronte orientale.

COME PUÒ L’UCRAINA appellarsi ai valori europei corteggiando un genocida? È possibile tenere insieme la lotta per la libertà e un’idea intollerante della nazione? E ancora: perché mettere in pericolo i rapporti con governi amici in nome di una reliquia filonazista?
Eppure i segni di questa tendenza sono numerosi. Il Primo gennaio decine di migliaia hanno celebrato l’anniversario della nascita di Stepan Bandera, in particolare a Leopoli, la città in cui si trova un grande monumento con le sue fattezze. Lo stesso giorno il comandante delle forze armate, Valery Zaluzhny, si è fatto fotografare accanto a un ritratto di Bandera, e la Rada, ovvero il Parlamento ucraino, ha pubblicato l’immagine sui suoi canali ufficiali. Ma il caso più significativo è con ogni probabilità quello di un diplomatico di nome Andryi Melnyk. A giugno, quando era ambasciatore a Berlino, Melnyk è finito al centro di enormi polemiche per avere negato, ospite del popolarissimo canale YouTube del giornalista tedesco Tilo Jung, le responsabilità di Bandera nella Seconda guerra mondiale. «Non era un assassino di ebrei e polacchi», ha detto a voce alta, «non esiste alcuna prova che i suoi uomini abbiano ucciso centinaia di migliaia di ebrei. Zero prove. È una narrazione avanzata dalla Russia e sostenuta da Germania, Polonia e Israele». Le proteste del governo tedesco hanno spinto il presidente ucraino, Volodymyr Zelensky, a rimuovere in anticipo Melnyk. Ma una volta ritornato a Kiev lo hanno promosso viceministro. Negli ambienti diplomatici questa decisione ha sollevato non poche perplessità.

Sarebbe sbagliato pensare che le cose siano sempre andate in questo modo. Per decenni il culto di Bandera è stato una prerogativa degli ambienti minoritari dell’estrema destra. Oggi sembra entrato definitivamente nelle cerimonie pubbliche. Forse si tratta di un risposta alle deliranti ragioni con cui i russi, a partire dal capo del Cremlino, Vladimir Putin, hanno giustificato la decisione di invadere il paese. Come dire: un anno fa eravate sicuri che avreste «denazificato» l’Ucraina, ma siamo qui, sempre a Kiev, e decideremo da soli il nostro futuro. Alle critiche su Bandera da Kiev rispondono sovente citando le origini ebraiche di Zelensky e del premier ucraino, Denis Shmyhal, oppure le storie, e sono numerose, di soldati e volontari ebrei che combattono fianco a fianco con i battaglioni nazionalisti. Esiste, però, l’impressione che possa farsi largo una dottrina radicale, ripulita almeno in apparenza delle istanze antisemite. Il che, è chiaro a tutti, difficilmente basterebbe a renderla rassicurante.

DI QUESTO ho discusso con un diplomatico europeo che si trova a Kiev da pochi mesi, ma ha già opinioni precise sul paese. Il suo punto di vista è il seguente. L’Ucraina negli ultimi cent’anni non ha potuto contare per ovvie ragioni su pensatori come Altiero Spinelli o Robert Schuman. Sfortunatamente non ha prodotto neanche un Havel o un Walesa. In questa guerra deve fare con quel che ha, dal punto di vista umano, militare e anche per così dire ideologico. Ecco, per adesso l’Ucraina ha trovato Bandera.