Stefano Rodotà, l’urgenza del conflitto
Il ricordo Ritratto del grande giurista da poco scomparso e la storia della Rivista critica del diritto privato: "Non aveva intenzione di celare il conflitto in corso o tentare di sminuirlo. Ma rifuggiva anche dalla retorica e da toni da comizio"
Il ricordo Ritratto del grande giurista da poco scomparso e la storia della Rivista critica del diritto privato: "Non aveva intenzione di celare il conflitto in corso o tentare di sminuirlo. Ma rifuggiva anche dalla retorica e da toni da comizio"
La prima volta che vidi Stefano Rodotà di persona fu nel 1978 in un’aula universitaria, un’aula in cui si svolgeva un’assemblea di studenti in agitazione. Lui, allora non ancora deputato della Sinistra indipendente, era l’unico docente che avesse accettato di partecipare all’assemblea. E non era, la sua, una presenza di comodo. Al contrario quel giorno, come gli altri in cui fu presente in assemblea, discusse a fondo le questioni all’ordine del giorno senza aver timore di mostrare da che parte stava, e senza alcuna intenzione di celare il conflitto in corso o tentare di sminuirlo. Ma anche senza retorica e toni da comizio, da applauso facile.
Un altro ricordo indelebile risale ad un giorno di inizio estate del 1983 quando, fresca di laurea, partecipai ad una riunione redazionale della neonata “Rivista critica del diritto privato”, di cui era appena uscito il secondo numero, su cui avevo pubblicato anch’io qualcosa. Arrivai in ritardo come al solito. Rodotà era in fondo alla sala, discuteva con altri giuristi suoi coetanei, cofondatori della Rivista. Mi vide e si alzò per venirmi incontro e stringermi la mano. Un semplice gesto di educazione, apparentemente normale. E invece assolutamente sbalorditivo in un ambiente profondamente segnato da gerarchie ferree seppure non formalizzate, come l’accademia italiana di allora, in cui neolaureate e neolaureati, i c.d. assistenti volontari, erano per lo più trasparenti. Nel senso che l’ordinario che incrociavi nel corridoio dell’Istituto di norma neppure ti vedeva, sembrava guardare attraverso di te come fossi di vetro. Figurarsi salutarti poi!
Ecco, Stefano Rodotà era così. Mai accomodante davanti all’urgenza del conflitto. E mai incline alle soluzioni facili, ad effetto. Gentile, ma non per amore della forma, piuttosto perché profondamente rispettoso di tutti e di ognuna, noncurante delle gerarchie, democratico. E questa è stata la cifra del suo rapporto con gli studenti, in aula e fuori, così come con i giovani studiosi che venivano a parlargli da tutta Italia. Mi sono sempre chiesta come si vivesse a casa Rodotà, immaginando il telefono squillare di continuo. Allora, in epoca pre-telefonia mobile, lui dava il suo numero di casa a tutti: “Ma certo mi chiami!”, “Non la disturbo?”, “Ma ci mancherebbe!”. E lì sorriso inconfondibile, stretta di mano, e l’abituale dileguarsi a passi tanto veloci che ti giravi e già non c’era più. Magico!
Nel 1992 – e fino al 1997, anno in cui fu chiamato a presiedere il Garante della privacy – inaugurò l’abitudine di riunire periodicamente la redazione romana della Rivista critica nell’Istituto di diritto privato della Sapienza per discutere dei temi che ci sembravano più urgenti. È stato allora che abbiamo affrontato il tema del rapporto fra principio d’uguaglianza e differenze, la questione della differenza sessuale in primo luogo; poi i problemi che le migrazioni ponevano sul terreno del diritto privato, e le questioni legate al governo del corpo, dallo statuto giuridico delle cellule umane alla maternità surrogata. Tutti temi ancora fortemente presenti nel dibattito pubblico, che con Rodotà venivano messi al centro dell’interesse del civilista con molti anni d’anticipo. Fu, quella, un’impresa realmente collettiva di produzione di conoscenza e un’esperienza formativa irripetibile. Alcuni di quei temi furono poi affrontati compiutamente in “Tecnologie e diritti” che divenne libro di testo del corso civile dell’anno accademico 1994/95.
Naturalmente l’eterodossia insita nella scelta di argomenti simili per un corso della facoltà di giurisprudenza incontrava la diffidenza di più d’un collega ed è capitato di sentirsi chiedere con sarcasmo “Ma che fate agli esami da Rodotà, parlate di sperma?”. Se questo atteggiamento di fondo fosse stato meno diffuso, se ancora oggi i giuristi fossero meno intenti a proteggere il loro orticello e più disponibili a coniugare il diritto con la materialità della vita, come Rodotà ha indicato a partire dalla selezione dei temi ritenuti degni della propria attenzione, essi sarebbero certamente più utili alla società di quanto nel complesso non riescano ad essere.
In effetti, Rodotà ha insegnato moltissimo a tanti ma non è mai diventato mainstream. Anche perché le competizioni narcisistiche fra accademici non lo hanno mai interessato ed era certamente alieno dall’autocelebrarsi attraverso la centralità delle proprie acquisizioni scientifiche, che pure sono state davvero seminali. Una volta dissodato un terreno, aperto una prospettiva che immancabilmente avrebbe segnato una svolta, era immediatamente attratto dall’urgenza di un altro tema, desideroso di esplorare un nuovo orizzonte con la capacità profetica, che gli era propria, di intuirne le implicazioni future per la società e per il diritto.
Questa particolarissima sensibilità è ciò che più di ogni altra cosa, credo, ha reso unica l’esperienza di chi ha avuto il privilegio di fare con lui lavoro di ricerca. Una preveggenza, una lungimiranza che è difficile riconoscere in alcuno dei giuristi delle generazioni a seguire. E che in definitiva è la ragione principale di una sensazione irredimibile di spaesamento nel vuoto assurdo e incolmabile che la sua scomparsa lascia.
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