Sempre misurato nel modo di porsi, Stefano Rodotà ha svolto una parte ingombrante nel dibattito politico e culturale. Lo prova, tra le altre cose, la difficoltà di ricordarlo: l’hanno fatto ieri alla camera dei deputati, per iniziativa dell’editore Laterza, una ventina di relatori per oltre tre ore di dibattito. Ognuno ha affrontato un diverso ambito di interesse e intervento di Rodotà, eppure qualcosa è rimasto fuori. Come l’europeismo, il giurista italiano essendo stato uno degli autori della carta dei diritti fondamentali dell’Unione.

Solo Giorgio Napolitano, in un messaggio, ha citato di sfuggita il lavoro di Rodotà alla Carta di Nizza; l’ex presidente non ha nascosto «dissensi e divergenze prevalsi tra noi in occasione della campagna referendaria». Lo stesso periodo al quale ha fatto riferimento la presidente della camera Laura Boldrini per lamentare come «profondamente ingiusto che lo si volle indicare come un conservatore»; era l’epoca degli attacchi di Renzi ai «professoroni» del No. Ai quali Rodotà replicava spiegando come le riforme renziane fossero esempi di leggi «arretratissime». Sollecitandone fino all’ultimo correzioni e ripensamenti. In fondo un suo grande merito, ha detto Giuseppe Laterza, era continuare a sperare nelle «possibilità della buona politica». Potendolo fare, ha aggiunto Nello Preterossi, con una «preziosa credibilità».

Il presidente della Corte costituzionale Paolo Grossi ha ripercorso la traiettoria degli studi giuridici di Rodotà attorno al diritto di proprietà, «Il terribile diritto» come da titolo di uno dei suoi libri più noti, pubblicato negli anni Ottanta e ristampato più recentemente con l’aggiunta di un riferimento ai «beni comuni». Punto di approdo della riflessione sulla funzione sociale della proprietà privata, i beni «per accedere ai quali non è richiesta l’appropriazione esclusiva» (Grossi) definiscono adesso una terza categoria, la proprietà collettiva, oltre il privato e il pubblico. Non solo in teoria per il Rodotà giurista impegnato, come hanno ricordato Fabrizio Gifuni parlando della battaglia per il Teatro Valle a Roma e Nicola Oddi a proposito del referendum sull’acqua.

Se Gaetano Azzariti è andato al cuore dell’insegnamento di Rodotà, mettendo a fuoco il principio di dignità, alla luce del quale per il giurista scomparso a Roma il 23 giugno di quest’anno va letta tutta la Costituzione, Maurizio Landini ha raccontato come e con quanta fatica è stato possibile ripristinare, a Pomigliano, la dignità del lavoro nello stabilimento Fiat anche grazie a Rodotà e alla sua partecipazione alla lotta degli operai.
Altri hanno affrontato diversi aspetti del lascito di Rodotà: la giudice costituzionale Silvana Sciarra ha parlato del valore della solidarietà, Luigi Ferrajoli del rapporto con la giustizia e la magistratura (e Franco Ippolito con una parte della magistratura, la corrente di sinistra Magistratura democratica), Juan Carlos De Martin di uno degli ultimi impegni del professore, la «costituzione di Internet», Ugo De Siervo degli anni all’ufficio di Garante della privacy, Mariachiara Tallacchini del «biocostituzionalismo» di Rodotà, ovvero del suo contributo a identificare quello spazio, protetto dalla Costituzione, dell’«indicibile giuridico». Mentre Aldo Tortorella ha parlato del Rodotà per quindici anni parlamentare, definendone l’impegno come «un compendio delle lotte per i diritti, lotte combattutte sempre dalla parte di chi i diritti non aveva».