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Stati uniti paralizzati dal bisogno di crisi permanente di Trump

Stati uniti paralizzati dal bisogno di crisi permanente di TrumpDonald Trump alla Casa bianca – Afp

Stati uniti Il tycoon batte il record: 23 giorni di shutdown: chiusi gli sportelli dell’assistenza, 800mila impiegati federali a riposo o senza salario. Sul muro i democratici non hanno motivo di cedere. E parte della colpa ricade sui repubblicani: il «non interventismo» del Gop figlio di una neutralità interessata

Pubblicato quasi 6 anni faEdizione del 13 gennaio 2019
Luca CeladaLOS ANGELES

Donald Trump, che ama autodefinirsi il più grande presidente della storia, ha finalmente il suo record indiscusso e omologato: lo shutdown più lungo di sempre. La paralisi del governo federale che perdura ormai da 23 giorni per il veto posto al bilancio (in quanto non stanzia i fondi per il suo muro di confine) per di più è una crisi interamente di propria fattura.

Oltre ai ranger, il cui congedo forzato ha costretto alla chiusura dei parchi nazionali con disagi per i turisti, da tre settimane latitano anche gli ispettori della Fda per cui sono cessati i controlli sugli alimenti in vendita al pubblico.

Chiusi gli sportelli dell’assistenza da cui dipende ad esempio oltre il 50% delle popolazioni delle riserve indiane e presto potrebbero estinguersi i buoni per gli alimenti distribuiti alle famiglie disagiate. Centinaia di migliaia di impiegati pubblici venerdì hanno saltato la prima busta paga: in totale sono oltre 800mila i dipendenti federali a riposo forzato o costretti a garantire i servizi essenziali a titolo gratuito.

A rischio le operazioni del fisco che entra ora nella stagione delle dichiarazioni delle tasse e il traffico aereo che attualmente è gestito da controllori di volo e personale di sicurezza che non viene pagato; molti stanno cominciando a mettersi in malattia.

Non è sorprendente che ci sia voluto il populista più demagogico e meno competente della storia della Casa bianca a progettare la tempesta perfetta di malgoverno e propaganda che sta gratuitamente paralizzando gli Stati uniti.

Sulla linea di confine in Texas Trump, ormai a corto di iperbole ha ancora definito la questione immigrazione «un’invasione» di dimensioni tali da «risultare difficile da comprendere».

Dietro la retorica da piaga biblica c’è una situazione che in realtà rientra del tutto nella norma per questa linea di confine tra la superpotenza americana e il sottosviluppo centroamericano. Anzi, per lo scorso anno i dati della Homeland Security parlano di 403.479 immigrati clandestini detenuti rispetto ai 1,67 milioni registrati nel 2000.

È evidente che il muro (ora diventato «barriera») non è una questione di policy quanto metafora al centro della consueta performance di teatro cattivista mirata alla base intransigente arringata nei comizi dei cappelli rossi. Trump, che un mese fa sembrava pronto a firmare il bilancio senza muro, ha bruscamente invertito la rotta sull’intransigenza dopo aver rilevato sintomi di cedimento nello zoccolo duro. I sondaggi però indicano che la fazione «barrierista» è solo un terzo degli americani.

I democratici, che hanno appena vinto un mandato alla Camera in gran parte proprio sulla questione immigrazione, non hanno motivo di cedere e la scorsa settimana hanno approvato una serie di emendamenti per approvare il bilancio anche senza stanziamenti per la muraglia.

Oltre che sul presidente, la responsabilità della paralisi ricade dunque sui repubblicani, ancora maggioranza al Senato. In precedenza i senatori Gop hanno approvato bilanci senza muro e potrebbero facilmente farlo nuovamente, costringendo Trump in un angolo difficilmente sostenibile. Ma sulla questione l’arciconservatore presidente del senato Mitch McConnell ha preferito defilarsi.

Il «non interventismo» dei repubblicani è l’ennesima mostra di colpevole ignavia su cui grava il lecito sospetto di neutralità interessata. Da un lato non si azzardano ancora a contrastare il presidente populista che ha espropriato il loro partito e che domina la maggior parte dell’elettorato di destra. Dall’altro preferiscono non venire invischiati in una faccenda che rischia di segnare una sconfitta politica importante per il presidente interessato solo a salvare la faccia con la minoranza oltranzista.

L’asso nella manica di Trump sarebbe la paventata dichiarazione dello stato d’emergenza per far fortificare la frontiera dai militari, un uso dei poteri esecutivi che andrebbe incontro all’assicurato ricorso dei democratici e una probabile prolungato contenzioso in tribunale. Il duello sul confine che vede la nazione ostaggio di un presidente minoritario dà l’ennesima misura anche di un fallimento istituzionale di un sistema impreparato a far fronte a un populista dispotico in possesso dei poteri esecutivi quasi illimitati dell’esecutivo.

Era naturale che un Trump in declino avesse interesse a creare un nuovo scontro dopo la sconfitta elettorale del midterm. Ma implicare nella sceneggiata le funzioni essenziali del governo alza lo scontro a un nuovo livello di pericolosità. La situazione sottolinea il bisogno fisiologico di crisi permanente dei regimi nazional populisti e fornisce forse un anticipo del caos destinato ad accompagnare il loro declino.

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