Nel giro di una settimana, Benjamin Netanyahu e Volodymir Zelensky hanno scoperto entrambi cosa significa essere amici degli Stati uniti: vuol dire scegliere un mestiere pericoloso.

Israele e Ucraina sono due situazioni diversissime: il primo è un alleato storico degli Stati Uniti, mai sconfitto sul campo di battaglia, la seconda è uno stato corrotto e precario, aggredito da un vicino più potente nel quadro di un’impossibile operazione revanscista: ricreare sul piano territoriale l’Unione sovietica.

Malgrado queste diversità, gli avvenimenti delle ultime settimane mostrano chiaramente una cosa: per gli amici e alleati gli aiuti finanziari, la fornitura di armi, il sostegno diplomatico, i tappeti rossi e gli inviti alla Casa Bianca sono a scadenza. Non proprio come lo yogurt, possono durare anni e costare miliardi di dollari al popolo americano, ma a un certo punto finiscono e quello che succede dopo è, di solito, molto spiacevole.

LO HANNO IMPARATO a loro spese Chiang Kai-shek (Cina), Syngman Rhee (Corea), Ngo Dinh Diem (Vietnam), Ashraf Ghani (Afghanistan), Fulgencio Batista (Cuba), Anastasio Somoza (Nicaragua), Manuel Noriega (Panama) e parecchi altri ai quattro angoli del pianeta.

Sembra quasi una legge bronzea della politica americana: foto nell’Ufficio ovale con il leader di turno, giuramenti di eterna amicizia e sostegno «incondizionato» e poi, a un certo punto, fine degli aiuti e abbandono più o meno rapido, più o meno violento.

La sorte peggiore toccò a Diem, fatto assassinare dalla Cia nel 1963 quando divenne chiaro che il suo governo nel Sud Vietnam non era in grado di resistere, o addirittura riconquistare, il Nord guidato da Ho Chi Minh.

Chiang Kai-shek e Syngman Rhee furono più fortunati: il primo si rifugiò a Taiwan, dove morì nel 1975, mentre il secondo poté godere di un esilio dorato alle Hawaii.

Fulgencio Batista trovò rifugio nella Spagna di Franco dopo la vittoria di Fidel Castro all’Avana, il primo gennaio 1959.

Ashraf Ghani vive tranquillo negli Emirati arabi uniti dopo il precipitoso ritiro delle truppe americane nell’agosto 2021.

Anche Somoza avrebbe potuto godersi l’esilio a Miami dopo la vittoria dei sandinisti in Nicaragua nel 1979 ma ebbe la pessima idea di recarsi in Paraguay nel 1980, dove fu ucciso da un commando dell’Erp, il gruppo guerrigliero argentino.

Sempre in America latina, Manuel Noriega, che aveva lavorato per decenni per la Cia a Panama, fu catturato nel gennaio 1990 dopo l’invasione decisa da George Bush padre e condannato da un tribunale di Miami per traffico di droga, passando gli ultimi 22 anni della sua vita in prigione.

I CASI CITATI spaziano dall’Asia all’America latina e dal 1959 (Batista) al 2021 (Ghani), fino agli sviluppi di oggi in Ucraina e Israele; quindi, devono evidentemente obbedire a una logica interna della politica imperiale degli Stati uniti, non a fattori locali e contingenti.

E questa logica non è difficile da individuare: malgrado la continua e martellante propaganda dei governi di Washington per far accettare i propri obiettivi di politica estera, la tolleranza dell’opinione pubblica americana per le guerre lunghe e sanguinose è molto limitata.

Non a caso l’ultima guerra che ha visto un impegno di centinaia di migliaia di soldati americani è stata il Vietnam, finita nel 1973, cioè più di mezzo secolo fa. In Afghanistan l’impegno è stato ventennale ma il numero di soldati americani coinvolti è stato relativamente basso, con la costante preoccupazione di evitare eccessive perdite.

IL FRENO dell’opinione pubblica non agisce immediatamente, le operazioni militari all’estero all’inizio sono generalmente popolari, a condizione che si concludano presto e vittoriosamente.

Se non è così emerge rapidamente la storica divergenza tra la visione del mondo delle élite dirigenti di Washington, sempre pronte a bombardare qualche punto del pianeta per ribadire che di superpotenza ce n’è una sola, e l’atteggiamento dei cittadini, che a grande maggioranza preferirebbero una politica concentrata sui problemi interni.

I sondaggi (poco pubblicizzati) su quale dovrebbe essere il ruolo degli Stati uniti nel mondo mostrano una forte riluttanza verso gli impegni militari all’estero, compresi quelli per la difesa di alleati storici come Israele e la Corea del Sud.

Non è quindi affatto sorprendente che Trump abbia detto recentemente che gli Stati uniti dovrebbero abbandonare a loro stessi i paesi membri della Nato che non paghino la loro quota di spese militari comuni: malgrado il cinismo della dichiarazione e la pioggia di critiche provenienti dall’establishment della sicurezza nazionale, si tratta di un tema che trova ascolto in una parte consistente dell’elettorato.

Bandiere di Usa e Israele all’incontro tra i ministri Gallant e Austin
Bandiere di Usa e Israele all’incontro tra i ministri Gallant e Austin, foto Ansa

CHE SUCCEDERÀ, quindi, a Netanyahu e Zelensky? Il primo probabilmente dovrà rinunciare ai piani più folli come deportare due milioni di abitanti di Gaza in Egitto o in qualche altro paese arabo, però la sua posizione rimane relativamente solida: dopotutto all’età di sette anni si era trasferito in Pennsylvania con la famiglia. Solo i cittadini israeliani possono mettere fine alla sua carriera, cosa che sperabilmente accadrà alle prossime elezioni.

Zelensky non ha elezioni in programma, non ha soldi per pagare armi e munizioni, non ha abbastanza uomini per una guerra di lunga durata: la sua sorte verrà decisa dopo le elezioni presidenziali americane del 5 novembre, a meno che un gruppo di generali ucraini non decida già prima che il suo tempo è scaduto.