Sembra un fallimento lo sforzo dei passati governi per raddoppiare il numero delle borse di specializzazione al fine di formare più medici e far fronte alla carenza di personale. Nelle discipline in cui mancano i sanitari, infatti, moltissime borse bandite dal governo negli ultimi due concorsi annuali non sono state assegnate. In più, un’ulteriore percentuale di specializzandi ha abbandonato la scuola di specializzazione a favore di un’altra disciplina, una fuga che almeno tra gli iscritti del 2022 potrebbe non essere esaurita.

I dati sono stati raccolti dal sindacato dei medici ospedalieri Anaao-Assomed: globalmente, la percentuale di mancate assegnazioni e abbandoni è stata del 18%, pari a circa 5.700 borse su 30 mila bandite in due anni. I 24 mila specializzandi rimasti in corso nel biennio sono dunque inferiori al fabbisogno annuo che le regioni stimano a circa 14 mila specialisti.

Ma quel 18% di media nasconde differenze preoccupanti. In alcuni settori, come la chirurgia plastica, la dermatologia e la cardiologia, pressoché tutte le borse bandite sono state assegnate e utilizzate. In altri, invece, la situazione appare diversa. Ad esempio, nella specializzazione di medicina di emergenza e urgenza – cioè il pronto soccorso, dove gli ospedali faticano a coprire i turni e ricorrono maggiormente ai medici «a gettone» – su 1.884 borse bandite nel 2021-2022 ben 1.144 (il 60%) sono rimaste inutilizzate o sono state abbandonate in favore di discipline ritenute più attraenti. Mentre il fabbisogno annuo di «urgentisti» dichiarato dalle regioni è di circa 900 specialisti a livello nazionale, le scuole di specializzazione ne sforneranno 700, ma in due anni. La differenza tra domanda e offerta è dunque destinata ad aumentare, alimentando l’abuso dei «gettonisti» da ingaggiare a partita Iva o subappaltando interi reparti a cooperative private.

Alto il numero di borse andate perse anche nell’altro settore strategico, quello della rianimazione: 688 posti sono andati persi, ma quelli banditi sono stati 3.192. In due anni saranno dunque diplomati circa 2.500 medici di terapia intensiva, a fronte di un fabbisogno annuale di circa 1.500 specialisti. In fumo anche il 78% dei posti di formazione per microbiologi, il 70% per la patologia clinica, il 68% per la radioterapia. Pochissimi i futuri «medici di comunità», visto che su 190 borse bandite ben 109 (il 57%) sono rimaste senza titolare. Eppure, in vista delle 1.300 case di comunità da realizzare con il Pnrr, il servizio sanitario nazionale ne avrebbe gran bisogno.

Le statistiche dell’Anaao-Assomed mostrano una tendenza evidente. «Risulta una cospicua e pressoché completa adesione a quelle scuole di specialità in cui l’attività privata e ambulatoriale rientra tra gli sbocchi lavorativi – spiega il segretario del sindacato Pierino Di Silverio – mentre vengono abbandonate o neppure prese in considerazione quelle prettamente ospedaliere e pubbliche».

Non basta, dunque, eliminare il numero chiuso nelle facoltà di medicina – come ha promesso la ministra dell’università Anna Maria Bernini – o aumentare le borse di specializzazione, come hanno fatto i governi Conte e Draghi a partire dal 2020, per rafforzare la sanità italiana con nuovo personale. A allontanare i medici da alcuni reparti ospedalieri è la difficoltà di spendere le proprie competenze presso le cliniche e gli ambulatori privati, una fetta del sistema sanitario che vale 37 miliardi di spesa annua out-of-pocket. La conseguente carenza di medici peggiora il servizio, spinge l’utenza verso il privato rendendolo ancora più attrattivo per i medici, che abbandonano gli ospedali pubblici e lasciano ulteriori vuoti nel servizio.

Per provare a invertire la tendenza, nell’ultima finanziaria il governo ha stanziato 200 milioni di remunerazione extra per i medici di pronto soccorso. Ma difficilmente basteranno a spezzare questo circolo vizioso.