Spacca Italia e spacca destra. Sull’autonomia Meloni rischia
Oltre allo sfogo di Occhiuto i segnali dagli elettori di Fdi. E l’opposizione si ricompatta
Oltre allo sfogo di Occhiuto i segnali dagli elettori di Fdi. E l’opposizione si ricompatta
È probabile che, se appena avesse potuto farlo, Giorgia Meloni avrebbe evitato di onorare l’accordo con la Lega sull’autonomia differenziata. Quella riforma, alla quale né lei né il suo partito né soprattutto i suoi elettori sono particolarmente favorevoli, le porta solo danni da ogni punto di vista. Sperare di spaccare l’Italia senza spaccare la maggioranza, o almeno una parte della maggioranza, era fare eccessivo affidamento sulla buona sorte. La lacerazione in Forza Italia è reale. La si deve in parte a inconfessabili beghe interne, l’irritazione del governatore della Calabria e vicesegretario Roberto Occhiuto per non essere stato nominato vice vicario, ma il disagio, anzi il franco dissenso è reale.
A RIBELLARSI APERTAMENTE sono stati i deputati calabresi ma a non votare l’autonomia è stato metà del gruppo parlamentare, 22 eletti su 45. E questo è ancora il meno. Il guaio grosso è quello denunciato dallo stesso Occhiuto, l’ira non dei rappresentanti ma dei rappresentati, degli elettori che si sono già fatti rumorosamente sentire alle europee. In Calabria persino molti leghisti e quasi certamente un numero anche maggiore di elettori di Fdi la hanno presa malissimo. Se il Pd è il primo partito nel Sud, risultato sino a poco tempo fa inimmaginabile, è in gran parte conseguenza dell’autonomia. La premier lo sa bene e come sempre quando si trova in difficoltà reagisce attaccando. Se la prende con «la logica dell’assistenzialismo» che avrebbe prevalso sinora «soprattutto nel Mezzogiorno» ed è presumibile che la battuta non abbia incrementato l’indice di gradimento al Sud e neppure in buona parte del Centro.
Ancor più del premierato e della separazione delle carriere, poi, la riforma di Calderoli ha sortito il risultato più sgradito, quello di compattare l’opposizione. Sino alle elezioni il Pd aveva esitato a fare dell’autonomia la prima linea dello scontro contro il governo, consapevole di avere precise e pesantissime responsabilità grazie a quella riforma del 2001 che, approvata poche ore prima dello scioglimento della legislatura con un pugno di voti, ha poi fatto infiniti danni sino a spalancare le porte allo scempio di Calderoli. Le urne delle europee hanno convinto anche i più scettici ed è probabile che a questo punto la raccolta delle firme per il referendum parta, con il pienissimo impegno del Nazareno.
ALTRA VIA PER OSTACOLARE la riforma non c’è. Il M5S invoca l’intervento del capo dello Stato, fingendo di non aver capito quanto Mattarella ha recentemente spiegato nel dettaglio: il suo ruolo istituzionale non permette di intervenire sulle leggi se non nei casi di approvazione irregolare o manifesta incostituzionalità, dunque non se esistono soltanto dubbi in proposito. Altrimenti la decisione spetta alla Consulta. Il presidente, che considera il tema fondamentale, troverà probabilmente modo di farsi sentire ma senza colpi di scena, secondo il suo stile discreto. La Corte interverrà ma non prima che una legge per il momento vuota di contenuto sia tradotta in norme concrete grazie alle intese tra Stato e singole regioni. Ci vorranno almeno 24 mesi, quelli necessari per definire i Lep. Proprio su questo lungo rinvio conta Meloni per ammortizzare i costi politici della riforma che ha dovuto varare per evitare la crisi terminale con la Lega.
IL REFERENDUM PUÒ sfilacciare la rete di protezione offerta dalla dilazione. La raccolta di firme e la campagna referendaria impediranno di seppellire la legge sotto una coltre di silenzio. Il rischio di non raggiungere il quorum è reale. Ma l’afflusso alle urne di milioni di elettori contrari a dividere l’Italia ricca da quella povera sarebbe comunque un colpo micidiale per la popolarità della premier e anche per l’applicazione concreta della legge.
C’è un rischio ulteriore per Sorella Giorgia. Il referendum confermativo sul premierato diventerà un pronunciamento su tutta l’idea d’Italia della maggioranza, dunque su tutte le riforme autonomia inclusa. Un esito già tutt’altro che sicuro lo diventerà ancora di meno. Il prezzo pagato dalla premier a Salvini, insomma, stavolta è davvero alto.
I consigli di mema
Gli articoli dall'Archivio per approfondire questo argomento