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Sovranità popolare non è votare un capo (o una capa)

Sovranità popolare non è votare un capo (o una capa)

Commenti Nell’elezione diretta del premier convergono il sostrato identitario della destra e il fascino di un leader che decide quale buon pastore che cura e sorveglia

Pubblicato 12 mesi faEdizione del 24 novembre 2023

«Volete scegliere voi chi vi governerà o volete che siano i partiti?», così Giorgia Meloni, evocando il referendum, semplifica quanto si legge nella Relazione che accompagna il disegno di legge costituzionale numero 935: «La proposta di legge mira a consolidare il principio democratico, valorizzando il ruolo del corpo elettorale nella determinazione dell’indirizzo politico della Nazione…».

Questo sarà uno dei fronti caldi della battaglia sulla riforma: nell’elezione diretta del premier convergono il sostrato identitario della destra e il fascino di un capo che decide, a cui affidarsi, quale buon pastore che cura ( e sorveglia), esorcizzando nella delega il disagio del presente e le paure del futuro. È la weberiana «democrazia plebiscitaria», una democrazia «subordinata a un capo», dove la concentrazione istituzionale del potere si unisce al potere carismatico (che, come osserva Gramsci, esiste anche senza una grande personalità) e «si cela sotto la forma di una legittimità derivante dalla volontà dei sudditi», sudditi non cittadini.

Allora, occorre insistere sin d’ora sul senso della sovranità popolare.

Il cuore della sovranità popolare sta nella partecipazione «effettiva», che si pone ad un tempo come strumento e come obiettivo; è una partecipazione che si intreccia con l’emancipazione, con l’autodeterminazione personale e collettiva, nel suo esistere plurale e conflittuale.
La sovranità popolare non emana dal popolo ma «appartiene» al popolo: l’appartenenza rinvia ad un esercizio continuo e permanente.
Quando il voto è finalizzato alla scelta del decisore e della sua maggioranza, la sovranità popolare è depotenziata, non rafforzata. È il popolo di Rousseau che esaurisce la sua libertà il giorno del voto e quindi è schiavo per cinque anni; mentre, in un sistema a centralità del Parlamento il rapporto rappresentati-rappresentanti, attraverso l’intermediazione dei partiti, mantiene vitale la partecipazione. Certo, perché la rappresentanza non si riduca a finzione, partiti e parlamentari devono assumere una dose massiccia di ricostituenti, ma questa, insieme ad una società vivace, è la via per una democrazia effettiva e plurale. La logica dell’elezione diretta, come del premio al 55% (senza soglie minime e sbarramento), neutralizza l’uguaglianza del voto, esclude i perdenti, in assonanza con l’esclusione sociale veicolata da competitività e meritocrazia, asfissia nella sua morsa il pluralismo; allargando lo sguardo, compare l’espulsione come cifra di lettura del mondo (Sassen).

La sovranità popolare, ancora, si esercita «nelle forme e nei limiti della Costituzione», nell’orizzonte della limitazione del potere, attraverso equilibri e contropoteri, come più volte ricordato in queste pagine. Innestare maldestramente elementi parlamentari, come semplicemente nominare ruoli presidenziali svuotati, intorbidisce e confonde ma non smorza l’idea della scelta del capo che dà veste e potere al premierato di fatto.

Nella realtà sociale, e nel favore di molti, ci sono «il dominio, l’esistenza di capi» mentre «nella democrazia ideale non c’è posto per una natura di capo» (Kelsen): nella terra di mezzo c’è il conflitto, manifestazione dell’eterna lotta tra dominio ed emancipazione.

Ripartiamo, dunque, dalla sostanza della sovranità popolare come partecipazione permanente e sostanziale: prepariamoci al referendum (oppositivo, non confermativo), alla resistenza costituzionale che ha animato le campagne referendarie nel 2006 e nel 2016 e vive, quotidianamente, nelle tante lotte e isole di insorgenza sociale disseminate sul territorio.

All’espropriazione della partecipazione attraverso la mistificazione dell’investitura del decisore, occorre opporre una partecipazione dal basso, antidoto contro ogni degenerazione autoritaria e imprescindibile terreno nel quale radicare una rappresentanza che non scada in rappresentazione e un Parlamento forte.

Non solo, nella scia delle riflessioni di Polanyi sulla corrispondenza fra capitalismo e autoritarismo, ricordiamo che le «criticità… in campo economico e sociale» non sono – come si legge nella Relazione che precede il disegno di riforma costituzionale – imputabili a instabilità dei governi e volatilità delle maggioranze, ma alla stabilità trasversale intorno all’agenda neoliberista.

È ora di pensare ad attuare la Costituzione, tutta, perché salvarne il disegno istituzionale non è sufficiente senza concretizzarne il presupposto e l’obiettivo, la democrazia sociale, in coerenza con una sovranità popolare che esige una partecipazione effettiva sul piano politico, sociale ed economico.

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