South Bronx, la colpa dei fuochi
Trasformazioni urbane I processi di gentrificazione di quartieri di New York come Long Island e il Bronx, o anche di intere città, vedi San Francisco, oggi sono ostacolati da comitati di abitanti che si organizzano per evitare la cacciata dei vecchi residenti, con minore capacità di spesa dei nuovi, e lo snaturamento dell’identità del luogo
Trasformazioni urbane I processi di gentrificazione di quartieri di New York come Long Island e il Bronx, o anche di intere città, vedi San Francisco, oggi sono ostacolati da comitati di abitanti che si organizzano per evitare la cacciata dei vecchi residenti, con minore capacità di spesa dei nuovi, e lo snaturamento dell’identità del luogo
Ci sono anni in cui al cinema facevano The Warriors e per dire quartiere malfamato e pericoloso in mano alla microcriminalità, nel mondo si diceva «Bronx». Nella testa di molti il Bronx è un immenso ghetto accanto all’isola di Manhattan ed è sempre stato così. Errore. I ghetti non sono nati per caso e la brutta fine delle minoranze è figlia della amicizia frequente tra politica, finanza immobiliare, piccoli e grandi poteri. Una storia antica e nuovissima, se è vero che c’è voluta una grande mobilitazione e la visibilità di personaggi come Alexandria Ocasio Cortez a far abbandonare ad Amazon l’idea di portare il suo secondo quartier generale a Long Island City, quartiere del Queens già in fase avanzata di gentrificazione – ma questa storia la raccontiamo tra un po’.
C’è stato un tempo in cui il Bronx era un porto di approdo per immigrati di ogni provenienza che coesistevano in relativa armonia e con l’idea di stare, tutti, vivendo il sogno americano. Commercianti e muratori, ristoratori e autisti, sarti e cuochi una middle class in costruzione che portava le sue abitudini a New York e le mescolava con quelle degli altri nuovi arrivati. Molta vita per strada, molti conoscenti, grandi speranze. Così almeno lo racconta Vivian Vázquez Irizarry in “Decade of fire”, il documentario sugli anni degli incendi tra 1968 e fine anni 70 diretto assieme a Gretchen Hildebran. Vazquez quella storia, l’ha vissuta da abitante del South Bronx.
Tutto comincia con il red lining e il re-zoning, scelte amministrative dettate da interessi immobiliari, ma anche dalla scelta politica di separare e segregare. Dagli anni ’30 si decide di mappare le città sulla base del livello di sicurezza dell’investimento immobiliare: segnare in rosso su una mappa comunale una zona significava abbandonarla al suo destino, se questa era già degradata, o vederla precipitare nell’abisso, se era come il South Bronx. Il re-zoning è invece lo strumento attraverso il quale il governo di una città consente agli immobiliaristi di riqualificare un’area modificando l’altezza a cui si può costruire, il tipo di edifici e il loro uso. In un caso si deprezza e abbandona, nell’altro si rivaluta.
Come racconta Richard Rothstein nel suo “The Color of Law”, una storia dei regolamenti che hanno prodotto la segregazione urbana nelle città Usa, la vicenda dei quartieri neri è simile ovunque. A Baltimora i regolamenti anti-nero sono la reazione ai primi acquisti di case della borghesia nera in quartieri bianchi all’inizio del XX secolo.
Nel caso del Bronx la «zonizzazione» venne determinata dalla costruzione di una strada che divide il quartiere. La segregazione venne anche a causa del trasferimento incentivato da sussidi pubblici e mutui agevolati per i bianchi – ai neri e ai latinos, il mutuo non lo davano.
[do action=”citazione”]È allora, ad esempio, che una parte importante di italoamericani si trasferì nelle casette unifamiliari che ancora oggi sono il cuore della America non metropolitana. Così fecero quelli del South Bronx.[/do]
La zona cominciò a degradarsi, arrivarono i neri espulsi da altre zone di Manhattan. Poi cominciarono le rivolte. Nel 1968 ce ne furono ovunque. All’epoca la commissione voluta dal presidente Johnson per capire cosa stesse succedendo concluse: «Fornitura discriminatoria di servizi municipali (…) pratiche di polizia discutibili, discriminazione abitativa».
L’ex governatore dell’Illinois Kerner, capo della commissione, scrisse che il Paese stava generando «due società, una nera, una bianca – separate e ineguali». Dopo 40 anni non è cambiato granché: scuole e servizi peggiori, lontananza dai luoghi in cui si lavora e si consuma e trasporti pessimi rendono l’esperienza di vita dei neri diversa da quella dei bianchi.
“Decade of fire”racconta questa storia nella New York dei ’70. Tra il 1968 e la fine dei ’70 il Bronx fu teatro di migliaia di incendi, una crisi ignorata che determinò lo spostamento o l’abbandono di 250 mila persone. Le immagini di repertorio di interi isolati in fiamme e discariche enormi a cielo aperto, di bambini che giocano in strade fantasma, fanno pensare a Berlino nel ’45 o a Sarajevo nel 1996.
«Per anni ci hanno detto che la colpa di quei fuochi era nostra, facendo ricerca d’archivio per questo documentario ho scoperto che la colpa non era affatto nostra e che, anzi, grazie allo sforzo comunitario, abbiamo contribuito a salvare i nostri quartieri», ha raccontato Irizarry alla prima del film al cinema Metrograph di New York, nel gentrificando Lower East Side – al ristorante gli spaghetti al pomodoro costano 18 dollari.
Gli incendi cominciarono per via di impianti mediocri, stufe a gas, mancanza di manutenzione da parte di proprietari senza scrupoli. Con il tempo divennero un modo per incassare i premi delle assicurazioni. I padroni dei palazzi pagavano le bande locali e queste andavano a dare fuoco alle strade dove abitavano – nel film le testimonianze di vecchi membri delle gang sono forti.
Per le autorità la colpa del degrado era dell’attitudine deviante dei giovani neri. Daniel Moynihan, senatore di New York e consigliere di Nixon scrisse sui fuochi che erano un «indicatore delle patologie sociali presenti in un quartiere». Che fare? Isolarlo e lasciarlo a marcire. In quegli anni il Comune di New York è sempre sull’orlo della bancarotta.
Per risparmiare affida alla Rand Corporation un piano di redistribuzione dei servizi. Un intervento «tecnico e neutrale» sulla città che determinerà la chiusura delle stazioni dei pompieri nel Bronx per aprirne dove non brucia nulla ma gli abitanti sono bianchi. I pompieri intervistati nel film raccontano che gli incendi nel Bronx, nemmeno li registravano più e per questo non si sa esattamente quanti furono. Con il tempo gli incendi diminuirono e lo sforzo di community organizing determinò una lenta rinascita di quelle strade.
[do action=”citazione”]Qui finisce la storia di “Decade of fire” e comincia quella di questi anni[/do]
Torniamo all’esempio di Amazon. Le città americane che corrono, attraggono famiglie giovani, ben pagate, con più di uno stipendio. Ed espellono persone normali: i quartieri middle class stanno sparendo, ci sono quartieri poveri e ricchi e la moderna e cool San Francisco ha il record nazionale per numero di senza tetto.
A New York, sostiene la Coalition for the Homeless i prezzi delle case hanno prodotto un numero record di 60 mila senza-casa, destinati a crescere nei prossimi anni. Nelle città che tirano, tutto costa troppo, a partire dalle case.
Nuovi investimenti come quello che Amazon avrebbe fatto a Long Island City attirano queste famiglie istruite e benestanti che per guadagnare e mantenere lo status si ammazzano di lavoro. E trasformano il tessuto urbano. Per questo i quartieri si rivoltano. Talvolta lo fanno anche respingendo ipotesi di riqualificazione urbana e nuove costruzioni.
A Manhattan la bella idea della high-line, la passeggiata sulla ferrovia abbandonata, è diventata in pochi anni il centro di una colossale operazione immobiliare e oggi è oppressa dai (brutti) grattacieli della Hudson Yards. Il paradosso è che giovani liberal, che in teoria hanno una tavolozza di ideali che non prevede gentrificazione ed espulsione delle minoranze, producono di fatto quell’effetto. Uno dei mille paradossi dell’economia delle Big Tech.
Torniamo al Bronx. «Vivo in un palazzo dove l’ascensore è rotto da anni ma i padroni di casa si guardano dal ripararlo, aspettano che ce ne andiamo per ristrutturare e rivendere», racconta alla proiezione del film una volontaria di Casa (Community Action for Safe Apartments), che nel Bronx difende gli inquilini. «Il comune ha proposto di cambiare il piano regolatore e consentire nuove costruzioni. Saranno condomini di lusso che cambiano la faccia del quartiere».
Il South Bronx è il distretto elettorale più povero d’America e «anche se il piano prevede la costruzione di case a prezzo medio, un prezzo fittizio, comparato al resto dei prezzi della città e stabilito d’ufficio dal Comune, gli inquilini non potrebbero permettersele – ci spiega Julia Steele Allen, tra i produttori del documentario – e la cosa grave è che il rezoning è competenza del Comune, uno dei pochi ambiti sui quali può governare in qualche modo la gentrification. Nonostante molte proteste, per adesso hanno votato tutto quel che non dovevano».
In attesa del rinnovamento, i padroni di alloggi ad affitto controllato abbandonano gli edifici a loro stessi sperando nella fuga degli inquilini che pagano poco. Sul tema è in atto un braccio di ferro tra diseredati organizzati e resto del mondo. Con il comune guidato da Bill De Blasio in imbarazzo. Il South Bronx non brucia più, ma l’onda lunga delle segregazione continua a mietere vittime e rendere inavvicinabili le città americane che corrono. Facendo loro perdere quell’anima per la quale le abbiamo amate.
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