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Sotto l’”abaya” non c’è nessuna libertà

Sotto l’”abaya” non c’è nessuna libertà

Diritti delle donne Ritenere che le forme di discriminazione delle donne attraverso la copertura (annullamento) del loro corpo siano una forma di libertà è una mistificazione della realtà

Pubblicato circa un anno faEdizione del 7 settembre 2023

In tutti i paesi musulmani che ho visitato non ho mai visto una studentessa andare a scuola con l’abaya (abito lungo che copre tutto il corpo e che spesso comprende anche il capo). Finora non ho visitato l’Arabia saudita – paese originario delle restrizioni più rigide per le donne – ma, proprio lì, l’abaya è stata vietata alle ragazze che devono sostenere gli esami. Anni fa in Algeria era stato imposto il divieto del niqab (che copre anche il viso) per evitare che gli esami universitari fossero sostenuti da studentesse che si sostituivano alle loro compagne meno preparate.

Naturalmente non è il caso della Francia di cui si discute in questi giorni, dopo il divieto all’uso dell’abaya (per le ragazze) e del qamis (per i ragazzi) nelle scuole deciso dal ministero dell’istruzione.

Come già con la legge del 2004, che vietava l’uso dei simboli religiosi nei luoghi pubblici, approvata anche dalle comunità musulmane, il governo francese si erge a difensore della laicità, principio sancito dalla costituzione d’oltralpe.

Il risultato di allora fu sicuramente rassicurante per il parlamento francese: poche le studentesse ritirate dalla scuola statale, alcune per iscriversi alle scuole cattoliche, altre per seguire lezioni on line, poche altre infine disperse, probabilmente rimaste senza istruzione. Come allora la sinistra francese è divisa sulla legge: Ps e, questa volta, anche tutto il Pcf a a favore, mentre Europa Ecologia e France Insoumise sono contro. Tuttavia. secondo un sondaggio di Ifop realizzato per Charlie Hebdo, il 58 per cento degli elettori di France Insoumise sarebbero a favore della legge.

La storia si ripete, questa volta a non voler rinunciare all’abaya sono 67 studentesse. Perché sono così determinate a voler nascondere il proprio corpo, perché questo è il ruolo dell’abaya, che non risponde a un dettame culturale o tradizionale. Infatti, all’interno di uno stesso paese, come l’Iraq, possiamo trovare donne senza velo, con l’hijab o con l’abaya. La comunità musulmana di Francia è divisa sul riconoscere un carattere religioso all’abbigliamento in questione. Tuttavia, è un fatto che in Francia l’acquisto dell’abaya via Internet avviene attraverso i negozi che offrono il pacchetto della buona musulmana, sottolineandone il carattere religioso, e dove, generalmente, si acquistano anche il Corano e altri libri religiosi.

Un dubbio sull’autenticità «islamica» dell’abaya, o dei suoi sostenitori, tuttavia sorge quando in Francia per far fronte al divieto imposto dal governo, i religiosi e gli influencer islamici propongono di spacciare l’abbigliamento come abito pre-maman! Per chi è contro il divieto dell’abaya, il velo che copre tutto il corpo non rappresenta solo un simbolo religioso, ma sicuramente un’opposizione alla laicità. E non solo in Francia.

Ritenere che le forme di discriminazione delle donne attraverso la copertura (annullamento) del loro corpo siano una forma di libertà è una mistificazione della realtà, della storia e della memoria di donne che hanno fatto rivoluzioni o che si apprestano a farle, come in Iran.

Eppure, l’Europa continua le sue campagne, sponsorizzate da organizzazioni islamiche, di «inclusione» con le immagini di donne velate. Come se il velo includesse tutte le donne musulmane in Europa o nel mondo. E questo avviene proprio mentre a parole in tutto il mondo occidentale si levano voci a sostegno delle donne iraniane che rischiano e sacrificano la propria vita per lottare contro l’imposizione del velo.

Fra pochi giorni, il 16 settembre, a un anno dalla morte di Masah Amini, la ragazza curda morta per le torture cui è stata sottoposta dalla polizia morale perché non portava correttamente il velo, si svolgeranno manifestazioni in tutto il mondo a sostegno del movimento “Donna, vita, libertà».

La sfida è contro il regime degli ayatollah incompatibile con il rispetto dei diritti umani e delle donne in particolare. La solidarietà richiede gesti concreti, non basta tagliarsi una ciocca di capelli. L’insensibilità dell’Europa e delle sue istituzioni, eccezion fatta per la Francia, trova l’opposizione solo della destra, in Italia come in altri paesi.

Possiamo noi, sinistra, femministe, lasciare la difesa della lotta delle donne musulmane per i loro diritti – che sono diritti universali – a forze reazionarie che usano l’opposizione a simboli islamici non per difendere i diritti delle donne ma per difendere la supremazia della cristianità?

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