I bombardamenti a Gaza sono da poco ripresi. Nessuno sa quando cesseranno definitivamente. Ma prima o poi questa guerra finirà. Quando avverrà, possiamo essere certi che in brevissimo tempo i riflettori dell’attenzione pubblica si spegneranno.

Ciò accadrà non solo nel contesto del funzionamento perverso di una parte preponderante del sistema dell’informazione, ma anche nell’idea – invero non balzana – che, quando le bombe tacciono, la tragedia finisce. Cessati i bombardamenti, si immagina, comincia immediatamente la ricostruzione, sicuramente complessa, talvolta pure dolorosa, ma che in ogni caso rappresenta il ritorno alla vita.

A GAZA, PERÒ, c’è il forte rischio che finiti i bombardamenti, la ricostruzione non cominci. La guerra non cesserà, ma tornerà a prendere la forma che ha avuto per la maggior parte degli ultimi 16 anni: quella dell’assedio. Da quando nel 2007 Hamas ha preso il potere nella Striscia di Gaza, Israele ha imposto all’area un blocco che è un vero e proprio stato di assedio: nulla e nessuno entra ed esce dalla Striscia senza il permesso delle autorità di Tel Aviv (che si muovono in sinergia con le autorità egiziane, che controllano il valico di Rafah).

Questo blocco ha già avuto effetti drammatici sulla popolazione della Striscia; tuttavia, diviene ancor più tragico quando vi è un intero territorio da ricostruire dalle fondamenta, come accadrà quando gli attuali bombardamenti finiranno. Si tenga presente che se oggi più del 60% della popolazione di Gaza vive sotto la soglia di povertà, ciò è proprio l’esito, secondo le Nazioni unite, del combinato disposto delle bombe e di tale blocco – in assenza del quale si stima che tale livello di povertà si assesterebbe attorno al 15%.

Ed è per lo stesso motivo che il 95% della popolazione di Gaza, già prima del recente conflitto, non aveva accesso diretto all’acqua potabile. Com’è possibile ricostruire un intero territorio – strade, palazzi, fabbriche, reti idriche e fognarie – devastato dalle bombe se non si hanno a disposizione materiali e mezzi di costruzione necessari?

Si consideri che il blocco israeliano, oltre a questi effetti nefasti, ne ha paradossalmente generato un altro: ha alimentato la costruzione dei famigerati tunnel. Questi si sono sviluppati non solo al servizio delle necessità militari di Hamas (importare illegalmente armi dall’Egitto), ma anche e soprattutto come strumento per garantire la sopravvivenza economica della Striscia di Gaza, permettendo l’ingresso di vestiti, medicinali, viveri e altri beni di prima necessità.

Ed è sempre attraverso i tunnel che, per esempio, è passata la gran parte dei materiali edili che ha permesso di ricostruire edifici e infrastrutture distrutte durante gli attacchi israeliani del dicembre 2008-gennaio 2009 e del novembre 2012. Così facendo, i tunnel hanno fatto la fortuna di Hamas, dal controllo dei quali ha ricavato fiumi di denaro (si è stimato che un singolo tunnel può fruttare fino a 40mila dollari al giorno al suo proprietario).

È ANCHE su questo sfondo che nel 2014 è stato lanciato il Gaza Reconstruction Mechanism, un accordo tra Israele e Autorità nazionale palestinese, con la mediazione delle Nazioni unite, finalizzato a facilitare e monitorare l’ingresso legale di beni nella Striscia. L’obiettivo era quello di aprire canali formali che permettessero la ricostruzione dopo i pesanti bombardamenti del 2014, il tutto prosciugando l’economia dei tunnel e garantendo la sicurezza di Israele.

Quest’ultimo obiettivo ha però da subito preso il sopravvento: le autorità di Tel Aviv hanno reso estremamente difficoltoso – al limite dell’impossibile – l’ingresso di materiali e macchinari giudicati potenzialmente «a doppio uso», ossia utilizzabili anche per scopi bellici (per esempio, barre di acciaio, legno, betoniere e pompe).

Il risultato è che, più che facilitare la ricostruzione post-bellica, il Grml’ha ostacolata, come dichiarato anche da Oxfam. Prova ne è che, a quattro anni dalla sua introduzione, più del 30% delle abitazioni danneggiate dai raid del 2014 doveva ancora essere ricostruito.

I bombardamenti israeliani su Gaza del 2014 sembravano, fino al 7 ottobre 2023, smisurati: 2.200 palestinesi uccisi, 18mila abitazioni distrutte (e 150mila danneggiate), dozzine di scuole, ospedali e infrastrutture pubbliche gravemente lesionate. Tutto ciò aveva spinto a parlare di crimini di guerra. Questi numeri, però, impallidiscono al cospetto di quanto sta avvenendo oggi.

Gli ultimi dati, per quanto incerti, parlano di qualcosa come più di 15mila morti, 100mila edifici distrutti, quasi 300mila abitazioni danneggiate o devastate (a cui si aggiungono 300 strutture educative e 160 luoghi di culto). Su questo sfondo, se l’obiettivo immediato deve essere il cessate il fuoco, esso deve necessariamente accompagnarsi dalla fine del blocco israeliano della Striscia.

IN CASO NEGATIVO, quando le bombe taceranno, la guerra non finirà, ma tornerà soltanto a essere quel brutale stato di assedio che sta martoriando la popolazione civile da 16 anni. Per di più, l’economia del tunnel in breve tempo tornerà a fiorire, permettendo a chi li gestisce di arricchirsi, rafforzarsi e tenere in pugno la Striscia.

*docente di Geografia economica e politica all’università di Torino. Autore del saggio «Gerusalemme contesa, dimensioni urbane di un conflitto» e «Cemento armato»