Lavoro

Sorvegliati e puniti, galera a chi lavora in nero e percepisce il sussidio di povertà

Sorvegliati e puniti, galera a chi lavora in nero e percepisce il sussidio di povertàIl vicepremier ministro del lavoro e dello sviluppo Luigi Di Maio

Dalla società di sorveglianza alla società penale Nuovi particolari sul sussidio di ultima istanza per i poveri assoluti chiamato impropriamente «reddito di cittadinanza». Il vicepremier ministro del lavoro Di Maio: «Se imbrogliano si beccano 6 anni di galera per dichiarazioni non conformi alla legge»".

Pubblicato quasi 6 anni faEdizione del 5 ottobre 2018

Fino a sei anni di galera per chi lavorerà in nero percependo il sussidio di ultima istanza vincolato al lavoro gratuito e all’obbligo di formazione ribattezzato impropriamente «reddito di cittadinanza». In un question time al Senato ieri il vicepremier ministro del lavoro e dello sviluppo Luigi Di Maio (Cinque Stelle) ha nuovamente brandito la minaccia contro i «furbetti del reddito» ribadendo quello che sembra il più vivo interesse del governo: assicurare il mainstream più accorsato, un’opposizione che la pensa allo stesso modo che va da Berlusconi al Pd, esperti come il presidente dell’Inps Tito Boeri e guru del microcredito come Muhammad Yunus sul fatto che il «reddito» impedirà ai «poveri» di «restare sul divano».

LA PAVENTATA MINACCIA del carcere è in questo caso più grave dell’abuso d’ufficio e della malversazione ai danni dello Stato. Non è solo un’iperbole, ma l’esibizione ringhiosa dell’impostazione paternalistica, lavoristica e colpevolizzante di un provvedimento pensato per una nuova ortopedia sociale: il cittadino sarà identificato nel «povero» e dovrà dimostrare di essere «una persona perbene» (Di Maio). Questo essere «perbene» sarà valutato in base a due criteri: essere un consumatore che si comporta secondo i criteri stabiliti dal governo (consumare tutta la cifra presso esercizi commerciali autarchici) e essere un lavoratore potenziale ma volenteroso disponibile ad attivarsi facendo otto ore di lavoro gratuito a settimana, partecipando ai corsi di formazione, accettando un’offerta di lavoro su tre (probabilmente non solo nel territorio di residenza). La combinazione tra un paternalismo che riduce il povero a consumatore e una «politica attiva del lavoro» che obbliga l’individuo a investire il credito (morale e finanziario) concesso dallo stato in un percorso di verifica della sua morale e degli obiettivi di produttività è, in sintesi, la poor law ribattezzata con il concetto opposto di «reddito di cittadinanza». Quest’ultimo è un’erogazione diretta, universale, incondizionata di un reddito alle persone, pur sempre legato alla cittadinanza. Problemi che non si pongono invece con il più dignitoso «reddito di base» che contempla cittadini e stranieri sullo stesso piano.

QUESTA LOGICA del sorvegliare, premiare o punire si basa sul rovesciamento dell’onere della prova: 3,6 milioni di cittadini italiani, più una quota indefinita di stranieri residenti da 10 anni, dovranno dimostrare di essere «poveri» in base ai loro comportamenti. Per essere profilati come «poveri» non basterà l’accertamento fiscale della condizione di deprivazione economica e il calcolo del reddito in base alla differenza tra il tetto di 780 euro e il calcolo del reddito Isee fino a sette (otto?) mila euro. Stando così le cose, e in attesa di un atto ufficiale del governo, il «povero» sarà considerato un potenziale frodatore, a meno che dimostri di non essere tale. La società della sorveglianza che si sta approntando può trasformarsi in una società penale. Continua a colpire la distanza tra il funzionamento del dispositivo con la rappresentazione del governo. «Con questa manovra del popolo rivoluzionaria intendiamo ripagare il popolo che ha subito sprechi e che ha dovuto pagare per vitalizi e pensioni d’oro» ha detto Di Maio. È una scelta strategica perché, presto o tardi, si scoprirà che per questo «popolo» la vita non sarà né felice, né degna, mentre dal governo si continuerà ad affermare la verità di regime. E si proverà a negare la realtà a ogni critica.

IERI CINQUE STELLE e Lega si sono intrattenuti in una surreale baruffa sulle cifre destinate dalla legge di bilancio al «reddito» dei Cinque Stelle e alla «quota 100» della Lega. È il minimo, visto che mancava ancora persino un testo definitivo del Def più tormentato degli ultimi anni. Per tutta la mattinata Salvini e i Cinque Stelle hanno giocato con i miliardi: alla Lega sarebbero andati «solo» 5 miliardi invece di 7; al «reddito» «solo» otto invece dei dieci complessivi annunciati. Poi hanno ritrovato un equilibrio. La sintesi l’ha data Salvini: «Tra Fornero e reddito sono circa 16 miliardi, negli anni la spesa per la Fornero crescerà, mentre il reddito di cittadinanza dovrebbe scendere, perché la gente troverà lavoro».

MA SIAMO SICURI che questo lavoro non sarà di nuovo precario e che i beneficiari del «reddito» non si ritroveranno prigionieri di questo sistema?

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