È ormai un pellegrinaggio ininterrotto quello che da sette mesi si snoda lungo le strade della nuova mecca dell’erba libera. Dallo storico 9 giugno 2022, quando la Thailandia ha tolto la cannabis dalla lista dei narcotici e liberalizzato consumo e vendita, vecchi o nuovi fumatori specialmente stranieri attraversano col sorriso stampato in volto le rinomate città e località del regno risorte a nuova vita. Non si fuma per strada, che può ancora costare il carcere, ma ovunque è un tripudio di negozi illuminati da neon abbaglianti e coffee shop con fumeria privata che in poche settimane hanno cambiato il volto delle mete del turismo di massa come l’iconica Khao San road, rese deserte e buie dai tre anni del Covid.

IN MOLTI HOTEL si offre con la colazione uno spinello pronto e le insegne commerciali con la foglia verde a cinque punte brillano come tante comete indicando la via ai cercatori di piacere temporaneo tra le numerose qualità di sativa e indica locale, importate o ibridate con ceppi thai ed esposte come prodotti di farmacia dentro asettici ambienti chiamati “dispensari” e “cliniche”. Intere strade ne sono piene e spuntano anche tra i resti antichi e sacri delle antiche capitali come Sukhothai e Ayutthaya, perfino attorno ai tolleranti templi del Buddha che sconsigliava ogni intossicante, ma dove qualche monaco non disdegna di meditare dopo un joint.

Poco importa che la nuova legge imponga un limite di appena lo 0,2% di tetraidrocannabinolo o Thc a fini medici e poco più per quelli «ricreazionali». Tranne minorenni e donne incinte, tutti possono di fatto scegliere tra qualità di erbe in offerta specialmente d’importazione che ne contengono tra il 10 e il 29%, percentuali più adatte a fumatori incalliti e comunque dai prezzi fuori dalla portata della maggioranza dei giovani thai.

LA GRANDE LIBERALITÀ potrebbe avere vita breve se dalle urne del prossimo maggio uscirà un governo più restrittivo o se l’attuale coalizione, guidata da un ex generale golpista di visioni aperte e dal ministro che ha varato il decreto legge, sarà costretta a imporre maggiori controlli per farla approvare dal parlamento, ad esempio chiedendo ai negozi nomi e foto dei clienti. Oltre a temere di perdere parte del suo elettorato conservatore, il premier Prayut Chan Ocha potrebbe aver ricevuto pressioni da governi partner di paesi potenti e severamente anti-cannabis come il Giappone, che minaccia i suoi turisti di ripercussioni al ritorno, o la Cina che ha da poco riaperto le frontiere e chiesto alle agenzie di mettere i clienti in guardia sugli effetti delle droghe dell’edonistico occidente.

Oltre al turismo dell’erba “ricreazionale”, però, la rienergizzata economia thai che ruota attorno alla foglia verde gode negli ultimi anni anche del boom di creme dermatologiche e olii per terapie anticancro esportate in molti paesi. È un mercato promettente per il regno grazie alla tempestività dell’apertura che non solo fa uscire molte famiglie dal tunnel di povertà dei tre anni di Covid, ma permetterà di battere altri eventuali paesi asiatici intenzionati a rendere legale la coltivazione su larga scala.

IL MINISTRO DELLA SANITÀ Anutin Charnvirakul, padrino della liberalizzazione e potenziale prossimo premier della Thailandia, prevede introiti da 10 miliardi di dollari entro il 2030 dal commercio interno e mondiale dei prodotti thai. Già mesi prima dell’entrata in vigore della legge donò a un milione di contadini altrettante piante di cannabis dicendogli di crescerle e moltiplicarle con la promessa di un facile arricchimento dopo tanto penare per pandemia e altre avversità della natura.

Tra licenze di coltivazione, distribuzione e vendita ben 7 milioni di thai e stranieri hanno chiesto e ottenuto di accedere al nuovo business. Ma sono i coltivatori tradizionali a incontrare la strada più in salita: non tutti sono riusciti a ottenere un buon raccolto dalla pianta di Anutin o altre acquistate e hanno subito capito che una larga fetta dei guadagni va a chi rifornisce la fascia di acquirenti danarosi, soprattutto stranieri in cerca della migliore qualità. Nonostante l’impegno subito profuso nelle ibridazioni da appassionati ed esperti locali, gran parte dei prodotti best seller proviene ancora dalla tecnologia genetica per semi e piante dei laboratori californiani e olandesi, ma la gara è aperta per alzare il contenuto di Thc o di Cbd delle specie indigene e promuovere ceppi originari dai principi psicoattivi elevati.

A DIFFERENZA DI OLANDA, Honduras, California e di recente lo Stato di New York, l’esperimento in corso per la prima volta a oriente «punta anche alla riappropriazione di una cultura della cannabis che nei libri di storia risale a 3 secoli addietro – spiega Apichart Suttiwong, autore di un libro culto in thai sulla ganja – ma fin dall’arrivo dei primi semi dall’India era ampiamente usata nell’alimentazione, nella medicina tradizionale e nei campi, dove i contadini la masticavano per sopportare il caldo. Poi divenne illegale con la guerra Usa-Onu alla droga del ’71 e certe conoscenze si sono perse».

Del patrimonio genetico dimenticato si occupò dagli anni ’90 un esperto di erbe della medicina tradizionale che fu ispiratore dei legislatori attuali, il 75enne Decha Siriphat. Dimostrò che molti pazienti affetti da dolori, ansie, disturbi mentali e del sistema nervoso trovavano enorme giovamento dagli olii di Cbd e Thc estratti dalla cannabis e organizzò marce chilometriche per chiedere di legalizzarne la ricerca e l’utilizzo terapeutico.

Al coraggio di Ajarn (maestro) Decha e al suo carisma presso le alte sfere deve molto il nuovo paradigma etico in un paese altrimenti dispotico e patriarcale, che il 9 giugno ha liberato 4300 consumatori e piccoli spacciatori ma ancora tiene in cella molti detenuti politici, come le due studentesse da un mese in sciopero della fame contro le leggi della lesa maestà.

DECHA SUBÌ DIVERSI ARRESTI e sequestri dei suoi laboratori per la cannabis a Suphan Buri finché, 4 anni fa, lo stesso Prayut non lo liberò con uno dei suoi primi provvedimenti da premier. Alle fattorie pionieristiche della fondazione di Decha affidò la ricerca per la produzione di cannabis medica e altre erbe come il kratom, legalizzate grazie a lui due anni fa. Gira la voce che ad ammorbidire i pregiudizi del rigido generale golpista potrebbero essere state le due figlie musiciste rock, ma molto pesò l’influenza di un altro generale, Paiboon Koomchaya, consigliere stretto del re, ex vicecapo dell’esercito e suo ex ministro di giustizia.

Di ritorno da un convegno Onu a New York sul tema dei traffici di droga nel 2016, l’alto ufficiale fu colpito dalle autocritiche dei proibizionisti anti-cannabis e dalle tesi dei nuovi orientamenti liberali simili a quelle di Ajarn Decha. Convinse il premier (ed evidentemente anche il sovrano Rama X, da poco salito al trono) a studiare più nei dettagli pro e contro della decriminalizzazione, visto che nel regno in quello stesso anno quasi 2 milioni di giovani avevano acquistato più di 4 miliardi di ben più pericolose pasticche chiamate yaba, la «medicina che rende pazzi».

Le politiche repressive come le esecuzioni extragiudiziarie di presunti spacciatori e consumatori ordinate dall’ex premier Thaksin Shinawatra nel 2003 (copiate anni dopo dal suo emulo Duterte nelle Filippine) avevano prodotto solo indignazione ma pochi effetti, se non gli oltre 2000 morti di quella crudele campagna “antidroga”.

I SEGUACI DI THAKSIN, le ex “camicie rosse” all’opposizione col Pheu thai party, si trovano in sintonia sul no all’erba con uno spicchio della maggioranza, gli ex nemici delle “camicie gialle” coi quali si scontrarono per 7 anni nelle piazze. Il Pheu thai candiderà alla premiership sua figlia Paethongtan, già in testa nei sondaggi e fin dall’annuncio della legge un anno fa ha iniziato una campagna di news terrificanti sugli effetti della ganja, come la storia del giovane che si è autoevirato dopo una lunga e dolorosa erezione procurata forse dai 2 grammi di erba fumati con una pipa ad acqua, o forse dai 5 caffè che ci ha bevuto sopra.

In un paese dove l’alcool è causa di conseguenze anche più gravi, mezzo secolo di severo proibizionismo ha pressoché fatto dimenticare che la Terra dei sorrisi non era mai stata bigotta verso l’uso della cannabis. Prova ne è che fino agli ultimi anni ’60 hippy da tutto il mondo venivano a provare la leggendaria Buddha grass fumata dai soldati americani sulle spiagge bianche e a quel tempo ancora incontaminate di Pattaya per alleviare lo stress degli orrori commessi durante la guerra in Vietnam.

AL SUCCESSIVO PERIODO di proibizionismo voluto da Usa e Onu si è riferito Anutin nel settembre scorso con un paradosso che racchiude lo spirito della sua legge. Alla presenza del nostro ex premier Matteo Renzi durante un meeting della Camera di commercio italo thailandese di Bangkok, disse: «Se quei soldati avessero usato da subito la cannabis se ne sarebbero andati in pace e non ci sarebbero state guerre in Indocina (…). Scherzi a parte – aggiunse – la cannabis toglie l’aggressività». Richiesto a Renzi un parere sulla decriminalizzazione, ha risposto fuori dal palco rivelando che si tratta di un dibattito ancora acceso anche in famiglia. «Mia moglie – ha spiegato – è molto più liberale di me».