«Noroz Khoja, nome di battaglia Ruksen Mihemed». È l’unica informazione su di sé che ritiene importante specificare la portavoce delle Unità di protezione delle donne. Le mitiche Ypj che dieci anni fa hanno combattuto e sconfitto lo Stato islamico (Isis) e oggi difendono nel nord-est della Siria, il Rojava, quel confederalismo democratico in cui i diversi popoli hanno la stessa dignità e uomini e donne partecipano alla pari al sistema politico. La incontriamo nei meandri dell’atelier autogestito Esc, nel quartiere romano di San Lorenzo, dove insieme ad Abdulkarim Omar, ex ministro degli esteri dell’Amministrazione autonoma della Siria del nord-est (Aanes) e attuale rappresentante, è intervenuta in un dibattito affollato di ragazze e ragazzi.

È l’8 marzo. Quale messaggio mandano le Ypj a tutte coloro che combattono il patriarcato?
La libertà delle donne che hanno partecipato alla nostra rivoluzione è stata possibile grazie ad Abdullah Öcalan. Per questo voglio augurare la sua liberazione. Salutiamo tutte le donne che si battono in ogni ambito della vita e in tutte le parti del mondo per autodeterminarsi. Questa battaglia non può essere limitata a una sola giornata, negli ultimi anni solo grazie alla lotta delle donne si è allargata e ogni 8 marzo ha guadagnato forza.

Con le guerre in Ucraina e Palestina l’attenzione dell’Occidente sul nord-est della Siria è calata. La Turchia approfitta dell’offensiva a Gaza per colpire il Kurdistan e proporsi come leader regionale. Quali sono gli effetti?
La Turchia ha sempre approfittato di guerre e crisi internazionali per far avanzare il suo piano di occupazione e genocidio contro la popolazione curda. Con queste ultime guerre sta cercando di distruggere il progetto sociale nato nel nord-est della Siria. È incredibile che cerchi di presentarsi come mediatore di pace: il suo esercito è presente in tutti gli scenari di conflitto, Libia, Sudan, Siria o dovunque ci siano scontri militari. Ora sta approfittando dell’offensiva su Gaza per aumentare l’aggressione contro il Rojava. Attacchi contro infrastrutture civili, ospedali, centrali elettriche, stazioni di petrolio e gas che costringono la popolazione a emigrare. Tutto questo è possibile anche grazie al silenzio della comunità internazionale e degli stati europei.

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Rispetto all’offensiva turca avete un’interlocuzione con gli Stati Uniti?
Né gli Usa, né l’Ue mostrano alcuna volontà di fermare gli attacchi. Prendono di mira infrastrutture civili, ospedali, l’economia di un intero popolo. Sono crimini di guerra, ma di fronte ad azioni gravissime sentiamo solo dichiarazioni di circostanza. È una vergogna. La guerra di Israele contro Gaza, poi, è uno strumento in più per la Turchia per fare pressione su Usa e Ue.

Hamas è sostenuta da regimi che massacrano i curdi in diversi paesi. Cosa pensate di quello che sta succedendo a Gaza?
Hamas si è complimentata con la Turchia quando questa ha occupato la città di Afrin, ma di quanto sta accadendo a Gaza il prezzo lo paga il popolo palestinese. Noi non prendiamo parte in questo scontro di poteri. Comunque la lotta dei palestinesi inizia molto prima di Hamas.

La coalizione internazionale anti-Isis continua a mandarvi armi o aiuti economici?
La nostra lotta insieme alla coalizione continua, ma adesso il sostegno materiale è scarsissimo. Nel campo di Al-Hol, dove stanno le famiglie di Daesh, nascono bambini che vengono cresciuti e addestrati per tagliare teste e uccidere. Sono cresciuti con una mentalità fondamentalista e un’ideologia radicale. C’è il rischio che ne venga fuori una nuova e più pericolosa generazione di combattenti di Daesh. In questo senso il sostegno della comunità internazionale e della coalizione è insufficiente.

Qual è la situazione dei foreign fighters dello Stato islamico ancora nelle vostre prigioni?
Parliamo di circa 12mila membri di Daesh, tra i più pericolosi. Vere e proprie guide ideologiche che si trovano nelle carceri del nord-est della Siria e provengono da diversi Stati. Questi non hanno fatto nulla per riprenderseli o almeno per collaborare con noi in processi che decidano del loro destino. Abbiamo fatto diversi appelli internazionali in questo senso, ma le autorità degli altri paesi non collaborano. Questo aumenta il pericolo che Daesh si rafforzi.

Dieci anni fa la resistenza di Kobane e la rivoluzione nel Rojava. Come è cambiata la vita quotidiana delle persone con il confederalismo democratico?
Prima i diversi popoli della Siria vivevano in una sorta di isolamento, non potevano parlare le loro lingue o praticare le loro culture. I divieti erano per i curdi, ma anche per assiri, armeni, ezidi e gli altri. Ogni regime si basa su una sola identità, lì era quella araba. Perciò le minoranze non avevano gli stessi diritti. La nostra rivoluzione è una primavera dei popoli, che partecipano ognuno con la sua lingua, il suo credo e le sue caratteristiche. Ha unito tutti i popoli, che governano democraticamente il territorio e lo difendono insieme. Ma la rivoluzione è anche e soprattutto delle donne che adesso hanno la co-presidenza di tutte le istituzioni e le organizzazioni.

Il 12 dicembre scorso è stato approvato un nuovo contratto sociale del Rojava. Perché?
La prima costituzione era stata scritta in un momento di crisi, in mezzo alla guerra. In questi anni abbiamo fatto molti passi avanti. Serviva dare basi più solide al confederalismo democratico, organizzare meglio le diverse parti della società che hanno fatto la rivoluzione e correggere alcune cose che attraverso l’autocritica e l’esperienza abbiamo capito essere sbagliate. Il lavoro ha avuto uno sguardo di lungo termine ma era necessaria anche per rispondere più correttamente alla situazione attuale.

Il Rojava non è uno Stato riconosciuto dalla comunità internazionale. Cosa comporta?
Il mancato riconoscimento dell’autonomia democratica del nord della Siria ha tantissimi effetti negativi concreti. L’aspetto politico fondamentale, però, è che così non viene riconosciuta la nostra rivoluzione che è il progetto di una nuova nazione democratica capace di risolvere non solo la crisi siriana ma quella di tutto il Medio Oriente. Per questo gli Stati ci ostacolano. La nostra speranza viene solo dai popoli, dalla pressione che possono esercitare.

Cosa chiedete alle istituzioni italiane?
Tre punti fondamentali: assumersi la propria parte di responsabilità nella lotta contro Daesh e la possibilità che si riorganizzi; sostenere il riconoscimento dell’autonomia democratica del nord-est della Siria; opporsi agli attacchi della Turchia.