“La maledizione della noce moscata” di Amitav Ghosh racconta come nel 1855, in quello che oggi è l’Oregon, un capo dei nativi americani Cayuse, si rifiutò di firmare un trattato perché sentiva che ignorava la voce della terra. Perché i nativi americani, come gli indios dell’Amazonia, e quelli delle isole Banda, dai quali ( dalla loro noce moscata, il libro di Ghosh prende le mosse), la voce della terra, dei fiumi, degli animali sapevano sentirla. E capirono subito che la riduzione della terra a realtà inerte, a pura materia da usare a nostra discrezione, era la premessa per considerare la maggior parte degli esseri viventi che la popolano come cose. Anche gran parte del genere umano, sulla base del colore della pelle, della religione, della lontananza dalle tecnologie, e persino per la pretesa di considerare la natura viva e parlante. Videro lucidamente la nascita di quel capitalismo coloniale ed estrattivista che ha contrassegnato la storia fino ai nostri giorni.

Certamente la voce della terra non hanno nemmeno provato a sentirla quelli che hanno riempito di cemento la pianura alluvionale della val Padana e della Romagna, e hanno costruito case, fabbriche, strade a ridosso dei corsi d’acqua, dopo averli imbavagliati dentro argini rigidi ed inutilmente alti, e rinchiuso polli e maiali in allevamenti intensivi che fanno male a loro e al clima. Né quanti in cerca di una vita apparentemente più dignitosa, attratti dal mito della velocità e del consumismo, ma spesso per avere vicino una scuola o un ospedale, stanchi di custodire territori e paesi sul cui futuro politica ed economia avevano smesso di investire, hanno abbandonato colline e montagne.

La calata a valle di quel popolo, che era quello che curava il territorio, che lo terrazzava, che sapeva fare i muretti a secco, rispettare il corso dei torrenti, ha preceduto la calata a valle catastrofica delle terre che abitavano. I fiumi e i torrenti imbavagliati hanno ripreso la parola. La logica perversa della crescita ad ogni costo che ha reso il territorio incapace di far fronte agli eventi atmosferici estremi, è la stessa che con l’uso dissennato delle fonti energetiche fossili ha costruito le condizioni perché quegli eventi estremi si presentassero sempre più di frequente.

E ogni volta mettiamo tanti soldi per ricostruire quel che è stato distrutto. Chi ci governa da lungo tempo è più addestrato a ricostruire che a prevenire. E nella ricostruzione è più facile fare affari e profitti. Meloni si vanta di aver trovato subito parte dei soldi necessari nelle pieghe del suo bilancio. Si comincia a discutere di chi sarà il commissario alla ricostruzione. Ci si divide sull’ipotesi di affidare l’incarico al Presidente della Regione, che a dire il vero ha qualche responsabilità nel modo in cui il territorio è stato usato prima della catastrofe, o se tirare fuori dal cilindro il nome di qualche manager o di qualche collaudato esperto in “emergenze”. Si dà quasi per scontato che ripartire vorrà dire rimettere in moro il tessuto economico e ambientale di prima, una realtà che era, prima dell’alluvione, la prima per Pil a livello nazionale.

L’imperativo è far presto. Magari anticipando il nuovo codice degli appalti che permette di evitare le lungaggini derivanti da vincoli ambientali e paesaggistici e dal rispetto dei diritti dei lavoratori. Come ai bei vecchi tempi del vecchio capo Cayuse, ferite alla terra e disprezzo della dignità di chi lavora andranno insieme.
Non si discute del mandato che chi guiderà la ricostruzione dovrà avere. Che non può che essere quello di ridurre drasticamente il livello di emissione di CO2 delle attività economiche del territorio ricostruito, e restituire alla natura, in pianura e montagna, quello che per arroganza o per omissione gli abbiamo sottratto. E costruire istituzioni e comunità, come ci spiegava Alberto Magnaghi in un recentissimo articolo sul manifesto, in grado di mettere coi piedi per terra questo obiettivo. Se davvero si vuole curare la terra e il clima per evitare altre catastrofi il nome del Commissario dovrà essere credibile rispetto a questo mandato.

Importanti in questo senso possono essere i giovani, quelli accorsi ad aiutare le persone colpite dall’alluvione. Si sono meritati il titolo, sui giornali e alla televisione, di “angeli del fango”. Così bravi che il Presidente del Senato esorta quelli che si battono contro il riscaldamento climatico, a difesa della terra e dell’acqua, a prendere una pala in mano e dimostrare il loro ambientalismo mettendosi a spalare fango. C’è da augurarsi che avvenga il contrario. Che cioè gli angeli del fango finito il loro meritorio impegno, si facciano “angeli del sole e del vento”, per evitare altro fango da spalare in futuro, magari assieme a quei giovani che si impegnano ogni giorno perché la loro generazione non sia l’ultima del genere umano sulla terra.