Insegnante 67enne in pensione e militante di Fatah sin dalla sua fondazione, Saleh è uno dei tanti, troppi, sostenitori delusi e frustrati di quello che era il più importante movimento palestinese. «Le cose vanno sempre peggio e parlarne in pubblico può costarti molto caro» ci dice parlando di quanto accade in Fatah, chiedendoci di non rivelare il suo cognome. «Abu Mazen ormai non controlla più nulla, è troppo vecchio e la lotta per la presidenza e le altre poltrone che contano già infuria mentre i nostri ragazzi vengono uccisi ogni giorno dall’occupazione militare e i coloni israeliani sono sempre più aggressivi», prosegue Saleh riferendosi ad Amjad Abu Alia, il palestinese 16enne ucciso ieri dall’esercito israeliano nel villaggio di Al Mughayer, a qualche chilometro da Ramallah. Qualche ora prima altri tre palestinesi erano stati feriti dal fuoco dei soldati nei pressi di Huwara dopo, secondo il portavoce militare, aver sparato contro una postazione dell’esercito. «Fatah dovrebbe guidare il nostro popolo e liberarlo dall’occupazione ma come tanti ho perduto ogni speranza, con questi leader (Fatah) non potrà mai riprendersi. A causa loro (il movimento islamico) Hamas si rafforza, anche in Cisgiordania», conclude l’ex insegnante che non manca di prevedere «tempi persino più brutti» per i palestinesi.

A Ramallah, fuori e dentro la Muqata, il quartier generale di Abu Mazen, non si parla altro che dei preparativi di «alcuni» in vista dell’uscita di scena dell’87enne presidente palestinese. Qualcuno starebbe addirittura mettendo da parte armi e munizioni per i giorni in cui più di ogni altra cosa conterà la forza per conquistare i vertici di Fatah e dell’Anp. Abu Mazen ne sarebbe consapevole ma non può intervenire. D’altronde è stato proprio lui ad accendere la miccia dello scontro interno imponendo a Fatah la nomina, avvenuta al recente (contestatissimo) Comitato centrale dell’Olp, di Hussein Sheikh, 61 anni, alla carica di segretario generale dell’organizzazione che, almeno formalmente, rappresenta tutti i partiti palestinesi (tranne Hamas e Jihad). Noto per i suoi buoni rapporti con Israele, stabiliti grazie ai suoi incarichi ministeriali, e con gli Stati uniti, Sheikh di fatto è il successore non designato di Abu Mazen. Una scelta che va bene a Tel Aviv e Washington ma che non è stata digerita da due esponenti di primo piano di Fatah – Jibril Rajoub e Tawfiq Tirawi – che, nonostante l’età avanzata, non nascondono le loro ambizioni. Soprattutto non sembrano preoccuparti dal fatto che dalla parte di Hussein Sheikh ci sia Majd Faraj, il potente capo dell’intelligence dell’Anp che vanta ugualmente ottime relazioni con i servizi israeliani e la Cia. Anche altri esponenti dell’Anp e di Fatah si preparano al cambio al vertice provando a tessere alleanze e accordi. Mentre il reietto della politica palestinese, Mohammed Dahlan, ex capo dei servizi di sicurezza ed esponente di primo piano di Fatah – da tempo residente negli Emirati (suoi sponsor) – sogna di rientrare da protagonista assoluto nei giochi politici palestinesi.

Movimenti dietro le quinte che non interessano in alcun modo alla popolazione dei Territori occupati, cosciente della inutilità e dannosità di questa lotta per il «potere», perché chi decide la vita dei palestinesi è sempre l’occupazione militare israeliana. A farsi interprete, almeno in parte, dei sentimenti della società palestinese è stato un gruppo di 65 personalità – tra le quali Hanan Ashrawi e Hani al Masri – guidato da Nasser al Kidwa, nipote di Yasser Arafat ed ex ministro degli esteri dell’Anp e inviato alle Nazioni unite. Martedì Al Kidwa ha annunciato la National Rescue Initiative per importanti riforme nel sistema politico palestinese. Al Kidwa l’anno scorso è stato espulso da Fatah dopo aver formato una propria lista per le elezioni legislative che avrebbero dovuto svolgersi nel maggio 2021 ma furono annullate da Abu Mazen assieme alle presidenziali previste a luglio. «I palestinesi – scrive il gruppo – stanno vivendo uno stato di declino senza precedenti dalla Nakba (catastrofe, nel 1948). Occorre affermare subito che il popolo palestinese è il popolo indigeno che possiede il diritto naturale e storico allo Stato».

«Questa come le iniziative di altri esponenti palestinesi non raggiungeranno alcun risultato» commenta sconsolato Saleh. «Le riforme – aggiunge – non sono possibili, chiunque sarà al potere non accetterà cambiamenti. L’unica soluzione sono le elezioni, democratiche e trasparenti, ma Abu Mazen non le convocherà più perché sa che le perderebbe a vantaggio di Hamas».