Internazionale

Shin Bet e kibbutz, fuoco su Netanyahu dai simboli dello stato di Israele

Noa Argamani Ap/Tsafrir AbayovNoa Argamani – Ap/Tsafrir Abayov

Crepe israeliane Il capo dello Shin Bet parla di «terrorismo ebraico», minaccia alla stabilità: era lo status quo a garantire l'espansione silenziosa, non le milizie di coloni. Tutto andato in frantumi, prima con l'avanzata dell'ultradestra e l'indifferenza globale, poi con il 7 ottobre

Pubblicato circa 2 mesi faEdizione del 24 agosto 2024

Martedì scorso Einav Zangauker, sorella di Matan, rapito il 7 ottobre, aveva pubblicamente riportato le parole che gli aveva affidato David Barnea, capo del Mossad: «Sotto questa costellazione politica, un accordo è improbabile».

Appena un’ora dopo un comunicato congiunto dei servizi israeliani e dell’ufficio del primo ministro ha smentito Zangauker: Barnea quelle parole non le ha mai dette. È decisamente probabile che lo abbia fatto: la frustrazione di un pezzo di establishment israeliano verso i ripetuti sabotaggi del premier Netanyahu di un accordo con Hamas sono un tema ricorrente dietro le quinte. Spesso finiscono sui giornali.

Dopotutto, scriveva ieri Haaretz, «Netanyahu è un maestro nel fingere di negoziare: tante parole, zero azioni (…) Non gli si può più permettere di tenere il pubblico occupato con la falsa speranza di un ritorno degli ostaggi mentre permette la loro morte e conduce il Medio Oriente sulla via del caos».

I SERVIZI ISRAELIANI lo sanno, sono loro dopotutto – Mossad e Shin Bet – a guidare la squadra di negoziatori a Doha e al Cairo. Colonna portante dello stato di Israele, sanno anche bene qual è (qual era) la miglior strategia di sopravvivenza del regime israeliano e della sua silenziosa espansione: lo status quo.

Quella realtà – le colonie che avanzavano senza far troppo rumore, i palestinesi che marcivano sotto un’occupazione via via più brutale – non esiste più. L’ha mandata in frantumi l’attacco di Hamas, ma le crepe ormai irrecuperabili erano apparse prima, con l’ascesa al potere e il radicamento alla base dell’ultradestra messianica, combinata con il disinteresse internazionale per il destino del popolo palestinese.

Non stupisce dunque che ieri Ronen Bar, capo dello Shin Bet, non certo un campione di diritti umani, in una lettera a Netanyahu abbia individuato nel «terrorismo ebraico» la minaccia all’esistenza di Israele: sono loro, scrive Bar, i leader del terrorismo ebraico, «a far perdere il controllo al sistema».

Il riferimento è alle bande armate di coloni (e non solo) operative nei Territori occupati palestinesi ma anche nelle città a maggioranza araba dentro Israele. Bar accusa i vertici di copertura tramite finanziamenti, legittimazione politica, impunità e «armi legalmente distribuite dallo stato».

BAR PUNTA il dito sul ministro della sicurezza nazionale Itamar Ben Gvir, che di armi nei giorni successivi al 7 ottobre ne ha distribuite decine di migliaia e che già prima aveva iniziato a creare una milizia privata alle sue dipendenze. Ben Gvir, in risposta, si è presentato a un incontro di governo furioso per trovarsi di fronte il ministro della difesa Gallant a coprire le spalle dello Shin Bet.

I piccoli terremoti nel governo non sono più una novità, l’apice è stato toccato il 9 giugno con le dimissioni di Benny Gantz dal gabinetto di guerra nato dopo il 7 ottobre. Le scosse di assestamento, inevitabilmente, riverberano nella società israeliana. Se – dicono i sondaggi – la metà degli israeliani ritiene la liberazione degli ostaggi una priorità, il consenso intorno alla strategia di Bibi non viene meno: la guerra a oltranza per distruggere Hamas e indebolire definitivamente Hezbollah e Iran tiene a galla il premier, l’araba fenice che risorge dalle ceneri di un Medio Oriente in fiamme.

In tale contesto le voci di dissenso finiscono inascoltate. Come quelle dei kibbutz attaccati il 7 ottobre che si sfilano, uno a uno, dalle commemorazioni per il primo anniversario: il governo, dicono, ci ignora, non ci fa visita ed evita un accordo salva-vita.

O quelle dei familiari dei sei ostaggi recuperati senza vita, che rifiutano la presenza di esponenti dell’esecutivo ai funerali: «Il recupero di sei corpi non è un risultato, è la testimonianza del totale fallimento nel raggiungere un accordo in tempo». Il grande assente resta Gaza e un’offensiva genocidaria che ha ucciso già almeno 40mila palestinesi.

E POI CI SONO le parole di Noa Argamani, liberata l’8 giugno in un’operazione israeliana devastante che ha ucciso 300 palestinesi nel campo di Nuseirat: ieri su Instagram ha accusato la stampa israeliana di «vittimizzarla di nuovo» «prendendo le mie parole fuori dal contesto».

Erano state estrapolate da un suo intervento a Tokyo e in cui non si riconosce: «Le al Qassam non mi hanno picchiato né tagliato i capelli, sono stata ferita dal collasso di un muro dovuto a un raid israeliano».

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