Le strade del villaggio ezida di Khanasur sono un reticolo di parallele e perpendicolari che rasenta la perfezione. Stesso orizzonte nelle comunità vicine, Sinone, Dolah, Borik, l’opposto dell’apparente confusione urbanistica delle cittadine mediorientali, dedalo di vicoli, salite ripide, percorsi labirintici che quasi per miracolo riconducono al punto di partenza, case arroccate una sull’altra, quasi a sorreggersi a vicenda.

NEL DISTRETTO DI SHENGAL, regione nord-occidentale dell’Iraq, incastrata tra Siria e Turchia, quel panorama c’è ma non sta a valle: se ne percepiscono i segni sul Monte Shengal, catena montuosa lunga un centinaio di chilometri che spezza a metà il nord e il sud del territorio ezida, costoni, vallate e grotte irraggiungibili con un qualsiasi mezzo a motore, ma anche terrazzamenti agricoli e prati verdi.

Qui i pochi villaggi sopravvissuti alla collettivizzazione imposta dal partito Baath negli anni Settanta, o ricostruiti negli ultimi tempi, seguono i canoni più noti. Minuscoli insediamenti compaiono a sprazzi sulle zone piane, case basse divise da stretti sentieri sterrati, dove se non si è rallentati dalle pietre si è frenati dalle crepe della terra.

Operai al lavoro sul Monte Shengal (foto di Chiara Cruciati)

Le abitazioni non sono tutte uguali, alcune sono costruite nel modo tradizionale, impasto di fango e pietre, altre sono in mattoni di cemento.

Haso Hibrahim, vice co-presidente dell’Amministrazione autonoma di Shengal, frutto della resistenza ezida al massacro dell’Isis dell’agosto 2014, vive con la famiglia negli insediamenti di montagna, Serdest (letteralmente «sopra la piana»), a poca distanza dal cimitero dei martiri, memoria fisica dei combattenti ezidi morti per liberare la regione dall’occupazione islamista durata 15 mesi, fino al novembre 2015.

SEDUTO SUI MATERASSI della sala comune, addosso abiti tradizionali e in testa la kefiah bianca e rossa, Haso racconta della cacciata dal villaggio, a metà anni Settanta.

Lui non era ancora nato: «La mia famiglia viveva in montagna da ben prima di Saddam Hussein. Nel 1975 il governo iracheno ordinò la distruzione dei villaggi ezidi sul Monte Shengal, dopo il conflitto tra Baghdad e il movimento curdo-iracheno guidato da Mustafa Barzani a cui presero parte anche ezidi».

«La mia famiglia fu trasferita nel nuovo villaggio di Borik, a valle. Siamo tornati solo nel 1992 dietro l’obbligo di non costruire case “stabili” in cemento, ma solo di fango. Il governo iracheno arrestò mio fratello e mio padre perché rifiutarono di firmare un documento in cui si impegnavano a non costruire abitazioni stabili».

«Non avevamo auto all’epoca, ci spostavamo con l’asino a valle – continua – Ma quassù avevamo tutto quel che serviva, alberi di fico, coltivazioni di tabacco, grano, ceci, lenticchie, le pecore ci davano la lana. Eravamo indipendenti».

I TERRAZZAMENTI AGRICOLI e i pascoli che punteggiano la montagna, infilati tra l’asprezza delle cime, raccontano il passato. Quassù, sul Monte Shengal, gli ezidi vivevano di pastorizia e agricoltura, attività fiorenti grazie alle sorgenti d’acqua quasi introvabili a valle, la piana desertica che prosegue a est verso Mosul.

Eppure è là che nel 1975 la Baghdad baathista ordinò che venissero trasferiti gli abitanti di oltre 150 villaggi di montagna, verso undici nuove township: i mujamma’at, i villaggi collettivi voluti da Saddam Hussein. Ribattezzati con nomi arabi, presto sostituiti dagli ezidi con il loro vocabolario, sono nati dal nulla, innaturale insediamento urbano disegnato per rendere più semplice il controllo sociale.

Il villaggio collettivo di Khanasur (foto di Chiara Cruciati)

ELIMINATO IL RIFUGIO in alto, con la montagna roccaforte difficilmente espugnabile da un esercito grazie alle sue grotte naturali, i tunnel e i sentieri ripidi affrontabili solo da piedi esperti, il design a valle è stato immaginato per facilitare i pattugliamenti militari: strade larghe, parallele e perpendicolari, case basse, villaggi eretti lungo la via principale che dal confine siriano attraversa la piana di Niniveh fino a Mosul.

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Alle origini stava la politica mista di arabizzazione e confisca delle terre con cui l’allora regime iracheno immaginò di trasformare il nord del paese, casa alle tante minoranze etniche e religiose dell’Iraq. Un’opera di ingegneria demografica che usò l’urbanistica e i diritti di proprietà della terra come strumento di controllo e repressione di ogni eventuale dissenso.

Si partì dagli Accordi di Algeri, tra Iran e Iraq, con cui i due paesi definirono i confini dello Shatt al-Arab (l’incontro – fertilissimo – tra i due fiumi Tigri ed Eufrate): in cambio Teheran accettò di interrompere il sostegno alla ribellione curda.

Seguì la deportazione secondo quella che è stata definita «diluizione» etnica: circa 250mila persone, per lo più ezidi, ma anche turkmeni, curdi e assiri, furono trasferiti con la forza dai loro villaggi ancestrali verso i mujamma’at.

A SHENGAL furono svuotate oltre 150 comunità rurali, distrutti frutteti, case, sorgenti d’acqua. La confisca di terre interessò il 64% delle proprietà private di allora.

Agli ezidi furono assegnati appezzamenti di terre nelle undici nuove township, a nord e sud del monte, secondo criteri che negavano i legami tribali e di affiliazione clanistica, spezzettando la struttura sociale ezida. «I mujamma’at – scriveva UN Habitat in un rapporto del 2019 – rappresentano le unità strutturali territoriali intorno a cui era stata organizzata la Riforma della Terra del 1975 e sono diventate un’importante caratteristica dell’attuale panorama nel nord iracheno. Se differenti nella grandezza, i mujamma’at sono stati immaginati secondo una tipologia modulare, che riproduce un orizzonte ripetitivo ancora oggi ben riconoscibile».

Strade e case nel villaggio collettivo di Khanasur (foto di Chiara Cruciati)

UN PROGETTO SECURITARIO e non di sviluppo. Alle famiglie ezide private delle loro terre furono assegnati 450 metri quadri di appezzamento a testa (ma non la proprietà della parcella, mai registrata a loro nome) e 400 dinari dell’epoca (pari a 1.200 dollari di oggi), da usare per il materiale da costruzione.

Dalle case di fango si passò ad abitazioni in muratura: senza lo spazio necessario alle greggi o i campi, gli ezidi divennero presto dipendenti dal governo per servizi forniti con il contagocce.

Intanto, migliaia di ettari di terre in montagna venivano assorbiti dallo Stato, in una massiccia operazione di confisca e nazionalizzazione, sfruttata a fini demografici: alcune terre vennero concesse in affitto calmierato a famiglie arabe trasferite dal centro e il sud dell’Iraq.

In montagna apparve anche altro. Sulla punta più alta, Cilmera («i 40 uomini»), il regime installò una base militare. C’è ancora, oggi ci stazionano le Ybs, le unità di autodifesa ezide. Tra filo spinato e baracche, resistono due enormi costruzioni in pietra di forma triangolare.

Come una rampa di lancio: «Da quassù – ci dice Hussein, giornalista – nel 1991 partirono i missili Scud verso Israele». Una quarantina, a riprova dell’altro uso della montagna che il Baath intendeva fare: posizione geografica, altezza, assenza di occhi indiscreti (i possibili testimoni, le comunità ezide, erano stati “saggiamente” spediti altrove) e distanza dalla capitale Baghdad in caso di rappresaglia israeliana fecero del Monte Shengal la location militare perfetta.

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EPPURE LA VITA sulla montagna oggi c’è ancora. Assurdamente tornata con il massacro dello Stato islamico, reso possibile nel 2014 dalla fuga dei peshmerga curdi del Kdp del clan Barzani e il collasso dell’esercito iracheno. Sono stati gli sfollati con le tende a riprendersi lo spazio di un tempo.

«Gli insediamenti sono rinati dopo la liberazione di Shengal e la nascita dell’Amministrazione autonoma, partiti dai campi profughi sorti quando decine di migliaia di ezidi si sono rifugiati quassù», ci spiega Murad, mentre ci accompagna a far visita a un anziano amico, uno di quelli che la casa l’ha ricostruita dopo essere stato costretto, quasi mezzo secolo fa, ad abbandonare il villaggio di origine per il mujamma baathista di Til Ezer.

Oggi Til Ezer è luogo fantasma, pochissime le famiglie tornate dopo la cacciata di Daesh: le mine occultate dagli islamisti nelle case e per le strade, e mai rimosse, impediscono il ritorno.

La nuova casa è in cemento, fuori i suoi abitanti hanno fatto spazio a pecore e galline: «Dalle tende chi ha potuto si è costruito una casa in mattoni – continua Murad – su terre che già possedevano e hanno riportato qui gli animali, piantato alberi e rimesso in piedi pezzi della loro vita tradizionale».

MENTRE A SERDEST un gruppo di operai è al lavoro per tirare su la Casa delle Donne, tassello dell’autogestione ezida ispirata al confederalismo democratico del vicino Rojava, a valle decine di bambini con lo zaino in spalla fanno l’autostop: dopo una mattinata a scuola nella città di Sinone, cercano un passaggio per tornare a casa, in montagna.

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