I colori brillanti degli abiti tradizionali ezidi spezzano l’ocra della terra, i minuti sprazzi d’erba e gli ammassi di pietre disseminati nella piccola valle nel villaggio di Solax. Il letto di un torrente separa la piana da una collina dove più di una famiglia ha sistemato a terra i teli per un picnic.

È il 21 marzo, giorno di Newroz. Equinozio di primavera e nuovo anno, la rinascita contro la tirannia come fu nel 612 a.C. È lì che affonda la leggenda: il fabbro Kawa uccide il re degli assiri Dehak, devastatore della flora, della fauna e dei campi del popolo dei medi. Con il suo tirannicidio, sulla terra dei medi torna la primavera e torna il sole, ricompaiono le aquile, i frutti, i fiori.

A SHENGAL non si festeggiava da tempo, un oblio autoimposto da una chiusura verso l’esterno vista come ultima difesa della propria identità di fronte al soffocante autoritarismo del governo di Erbil, Kurdistan iracheno. Lo stesso responsabile della fuga dei peshmerga del clan Barzani che nell’agosto 2014 abbandonarono mezzo milione di ezidi della regione nord-occidentale irachena in balia delle squadracce dell’Isis.

Si eclissarono lasciandoli senza armi e senza difesa e segnandone il destino: 250mila profughi, migliaia di donne rapite e schiavizzate per anni dai miliziani di Daesh, migliaia di uomini uccisi.

Le celebrazioni del Newroz a Shengal (Foto di Nayera El Gamal)

 

Il Newroz è riapparso tre anni fa, in sordina, risvegliato dalle forze di autodifesa curde del vicino Rojava che in solitaria hanno sostenuto la resistenza ezida contro l’Isis e hanno ispirato un modello politico di autogestione che oggi Shengal applica a modo suo, facendolo aderire a quella che è la particolare cultura dell’etnoreligione ezida.

Insieme alla liberazione è tornata la primavera e la voglia di festeggiarla. «Questo è il primo anno in cui il Newroz viene organizzato dall’Amministrazione autonoma di Shengal – ci spiega Ibrahim – Si è festeggiato anche nei due anni precedenti, fuochi accesi nei villaggi, ma stavolta è un rito collettivo».

Nei giorni passati, fuochi e marce hanno accompagnato verso la fine dell’inverno, il suo freddo ancora pungente e la neve che copre le cime dei monti. Hanno marciato le organizzazioni di donne e dei giovani, i falò hanno intiepidito i quartieri.

OGGI CI SI INCONTRA a Solax. Il villaggio mostra di sé i segni dell’occupazione islamista: la strada che conduce alla piccola piana è un cimitero di edifici, case ripiegate su se stesse, macerie, pianoterra sbriciolati dal peso dei tetti, qualcuno miracolosamente intatto.

Qui nell’ottobre 2020 è stata ritrovata una fossa comune, una delle decine che ancòrano Shengal al dolore del dominio di Daesh: c’erano sepolti i corpi di 80 donne e 12 bambini, è intervenuta l’Onu.

Lo stesso non si può dire delle altre fosse comuni. Fin dall’ingresso nella regione ezida, la terra nasconde cadaveri. Ne sono state individuate oltre 70, gli ezidi le hanno rese riconoscibili circondandole di sassi, ma non hanno i mezzi per riesumare i corpi. Spetterebbe al governo centrale di Baghdad, non ci ha mai nemmeno provato.

«Io ero nel gruppo dei 14 abitanti di Solax rimasto qui nonostante Daesh – ci racconta un trentenne, cappellino nero in testa, felpa nera – Quando ad agosto del 2014 gli islamisti sono arrivati, ci siamo nascosti nelle case e abbiamo provato a difenderle. Siamo rimasti qui per tutto il tempo dell’occupazione. Poi sono arrivati i bombardamenti della coalizione, degli americani».

LE BOMBE che spiegano la massiccia distruzione. «Ma bombardavano solo dalla parte dell’esercito iracheno e delle milizie sciite irachene, le Hashd al-Shaabi. Dalla parte nostra, quella dei compagni, no».

Solax è alle pendici del monte Sinjar, la lunga catena montuosa che attraversa Shengal con i suoi panorami in contraddizione, rocciosa e desertica e poi verde e rigogliosa, segnata dai terrazzamenti dove gli ezidi hanno coltivato la terra e vissuto per secoli prima che, negli anni Settanta, Saddam Hussein avviasse una politica di urbanizzazione e trasferimento verso pianure inospitali ma più controllabili.

Al villaggio arriviamo con un pulmino, fendendo la montagna. Incontriamo svariati checkpoint, tutti controllati dalle forze di autodifesa maschili e femminili di Shengal, le Ybs e le Yjs, ma anche posti di blocco dell’esercito iracheno, comunque presente sulla base di un accordo con l’Amministrazione autonoma, un’intesa ancora in piedi sebbene né Baghdad né Erbil nascondano i piani comuni di riappropriazione della regione ribelle.

LO HANNO FATTO con l’Accordo di Shengal dell’ottobre 2020, intesa bilaterale che punta al disarmo di Ybs e Yjs e al ritorno dello Stato centrale per soppiantare le strutture politiche dell’Autonomia. E lo fanno oggi, con frequenza regolare, inviando soldati, facendo pressioni militari sui confini, interrompendo i servizi pubblici e tentando di isolare fisicamente Shengal dal resto del paese.

E anche tacendo di fronte ai bombardamenti con i droni con cui la Turchia, con precisione aritmetica, da anni tenta di decapitare l’Amministrazione autonoma mirando e uccidendo i leader politici ezidi, “colpevoli” di aver messo in piedi un modello che ricalca il confederalismo democratico teorizzato dal fondatore del Pkk, Abdullah Ocalan.

Al nostro passaggio i soldati salutano, dietro di loro container con lo stemma inconfondibile dei servizi segreti di Baghdad, un occhio dentro uno scudo.

Gli Sheikh e il palco del Newroz egida (Foto: Nayera El Gamal)

 

Ma nel pulmino è già festa: al Newroz ci accompagnano le donne della stampa di Shengal, ognuna vestita a modo suo, jeans, abiti tradizionali, fazzoletti a fiori da cui cadono morbide file di perline. E cantano, tutto il tempo, battono le mani e provano a danzare nello spazio costretto, dove si sono infilate in 15 per 10 sedili.

ALL’ARRIVO, il palco per i musicisti e i discorsi di rito è già pronto. Sono pronti anche due bracieri, poco dopo li accenderanno – kefiah bianca in testa e sigaretta in bocca – gli sheikh di Shengal, le guide spirituali della comunità ezida, tuttora divisa in caste tramandate di generazione in generazione.

«Il fuoco continua ad ardere – dicono i rappresentanti dell’Amministrazione dal palco – Chi prova a spegnerlo, si brucerà». Alle loro spalle un manifesto con i volti dei martiri ezidi e un messaggio in arabo e curdo: «Il momento è arrivato per la libertà e l’autonomia di Shengal».

Sotto si fa festa. Le donne più anziane si siedono ai bordi della “pista”, foulard bianco in testa, discutono tra loro, fanno il gesto della vittoria con le dita. I bambini giocano, qualcuno è vestito con l’uniforme dell’autodifesa, altri con gli abiti della festa. Al lobo dei maschietti l’orecchino d’oro della tradizione ezida.

Gli adulti ballano, mignoli uniti, in cerchio. I vestiti delle donne fanno luce: con le loro tinte accese e le perline, risaltano accanto al verde militare delle partigiane e i partigiani di Shengal.

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In Turchia festa sotto attacco della polizia: 488 arresti

A Diyarbakir la polizia turca ha provato a fermare il più grande Newroz del Kurdistan, oltre un milione di curdi del sud-est della Turchia riuniti a festeggiare e chiedere la liberazione del leader del Pkk Ocalan e dei prigionieri politici. La polizia ha cercato di impedirlo con transenne (i manifestanti le hanno travolte), cannoni ad acqua e proiettili di gomma.

Newroz anche nel resto del Bakur, il Kurdistan turco, anche qui prese di mira: il bilancio è di 488 arresti, di cui 173 minori. A decine i fermati tra il 19 e il 20 marzo, vigilia del Newroz, a Diyarbakir, mentre svariati artisti curdi che avrebbero dovuto cantare sul palco sono stati bloccati prima di arrivare in piazza. Fermi anche ad Aydin, Konya, Mardin (dove sono stati condotti raid anche dentro le case), Sirnak, Adana e Istanbul (86 arresti).