Sfratti, l’allarme dell’Unione inquilini: «È uno tsunami. Il governo latita»
Emergenza abitativa Diffusi i dati 2021: drammatici, ma quest'anno sarà peggio. Su 2 milioni di famiglie in povertà assoluta, il 45% vive in affitto: sono 900mila
Emergenza abitativa Diffusi i dati 2021: drammatici, ma quest'anno sarà peggio. Su 2 milioni di famiglie in povertà assoluta, il 45% vive in affitto: sono 900mila
Il rimbalzo del 2021 non riguarda solo il +6,5% del Pil ma anche le percentuali a doppie cifre degli sfratti. I dati sono del Viminale e li ha diffusi ieri l’Unione inquilini (Ui). Rispetto al 2020 dicono: +80,97% di sfratti eseguiti con la forza pubblica (9.537), +45,39% di richieste di esecuzione forzata (33.208), +20% di nuove sentenze (38.163). Sono numeri allarmanti, nonostante il termine di paragone sia il primo anno di Covid-19, con le relative misure di contenimento del virus e di alcuni dei suoi effetti sociali.
La principale rispetto alla questione abitativa è il blocco degli sfratti decretato il 17 marzo 2020 e terminato definitivamente il 31 dicembre scorso. Nel mezzo, dal primo gennaio 2021 sono ripresi quelli per finita locazione e necessità del locatore, che però sono residuali. Dal primo luglio, invece, sono ricominciati quelli per morosità, a eccezione delle sentenze luglio/dicembre 2020. Sono questi gli sfratti che pesano di più: il fatto che per l’anno scorso riguardino solo il secondo semestre è un ulteriore segnale d’allarme per il 2022 e il 2023 quando l’onda può diventare tsunami.
Anche perché le statistiche dicono che le tendenze di lungo periodo hanno poco a che fare con l’eccezionalità pandemica. Al contrario mostrano l’incapacità del libero mercato di garantire a tutti il diritto fondamentale a un tetto e la storica inadeguatezza delle politiche pubbliche nella tutela delle fasce più deboli. Lo conferma, anche per il 2021, l’incidenza delle sentenze di sfratto per morosità: sono l’85% delle sentenze totali (32.083). Nella stragrande maggioranza dei casi chi non paga l’affitto non lo fa per scelta, ma per impossibilità economica.
«Significa che, covid o non covid, il problema sono i prezzi degli affitti. Con quelli a libero mercato o a canone agevolato, di poco inferiori, non possiamo risolvere la questione. Per abbassare quella percentuale ci sono solo due soluzioni: più case popolari, interventi efficaci per affitti sostenibili», dice Massimo Pasquini, responsabile del centro studi e ricerche dell’Ui.
In Italia 650mila famiglie, su 3,2 milioni che vivono in affitto, hanno diritto a una casa popolare ma attendono in graduatoria, mentre 40/50mila alloggi di quel tipo restano inutilizzati per mancata manutenzione. Il sindacato degli inquilini punta il dito contro la politica che in quasi due anni di blocco degli sfratti non ha fatto nulla per trovare soluzioni strutturali e in particolare contro il governo Draghi che aveva a disposizione i fondi del Pnrr.
«Finanzierà con 2,8 miliardi il Piano innovativo nazionale per la qualità dell’abitare (Pinqua), ma le nuove case saranno solo 16mila. Per giunta in social housing, una combinazione pubblico-privato che non funziona. Lo tsunami di sfratti era evitabile e con quei fondi si sarebbe potuto risolvere il problema in modo strutturale. Sono state fatte scelte folli», continua Pasquini. «Il 45% dei 2 milioni di nuclei familiari in povertà assoluta vivono in affitto. Servono misure urgenti e immediate ma il governo latita. Senza risposte sarà un autunno caldo di lotta in tutto il paese», afferma il segretario nazionale Ui Walter De Cesaris.
Il disagio abitativo va inserito nel quadro generale dell’aumento di disuguaglianze, povertà e lavoro povero fotografato dai rapporti annuali pubblicati nei giorni scorsi da Istat e Inps. Nel primo si vede come la povertà assoluta delle famiglie sia schizzata dal 3,3% del 2005 al 9,4% del 2021. Per gli individui è passato, nel medesimo periodo, dal 3,6% al 7,5%. Entrambi i dati sono in linea con il 2020, ma indicano che 5,6 milioni di persone non riescono a far fronte alle esigenze quotidiane: sono triplicate in 16 anni.
L’Inps, invece, ha rilevato che il 28% dei lavoratori, 4,3 milioni di individui, guadagna meno di 780 euro. Cioè la soglia massima prevista dal reddito di cittadinanza. Intanto un pensionato su tre percepisce meno di mille euro al mese: sono altri 5 milioni di persone.
La drammaticità della questione sociale è evidente da qualsiasi angolo la si guardi. I bonus e le misure tampone con cui volta per volta i «migliori» tentano di mettere una pezza non hanno alcun impatto reale. Servirebbero interventi strutturali di redistribuzione delle ricchezze: patrimoniale, fiscalità altamente progressiva, tassazione pesante degli extraprofitti. Non sarà il governo Draghi a metterle in campo.
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