Severodonetsk è sola. «O resa o annientamento»
Crisi ucraina L'unico ponte rimasto nella città del Lugansk è stato fatto saltare
Crisi ucraina L'unico ponte rimasto nella città del Lugansk è stato fatto saltare
Da circa 24 ore la città di Severodonetsk è completamente isolata dal resto del Donbass. L’unico ponte rimasto in piedi sul fiume Severskij Donec – che divide l’ormai ex capitale dell’Oblast’ di Lugansk dalla vicina Lishichansk, ancora saldamente in mani ucraine – è saltato nella notte tra giovedì e venerdì. Oggi nessuno può più entrare o uscire dalla città, civili compresi. Per i circa 10mila soldati di Kiev rimasti asserragliati tra le case distrutte si prospetta un destino tutt’altro che invidiabile: «O la resa o l’annientamento», come ha dichiarato ieri pomeriggio il portavoce delle milizie della repubblica separatista di Lugansk, Andréi Marochko.
LA NOTIZIA della distruzione del ponte ha cominciato a circolare nella mattinata di ieri, mentre nuove nuvole di fumo si alzavano verso est, sull’orizzonte piatto del Donbass. «Most kaputt», ci ha annunciato incrociando gli avambracci un soldato di guardia a un posto di blocco. Per giorni, dopo che le unità di Putin avevano preso il controllo dell’autostrada Bakhmut-Severodonetsk, i comandi ucraini si erano industriati per mettere in piedi una via di rifornimento alternativa che garantisse un minimo d’ossigeno alla città. L’itinerario – che noi abbiamo percorso ieri per la seconda volta in tre giorni – corre attraverso villaggi semidistrutti e scomode stradine di campagna. Fino alla cittadina di Siversk’ – 60 chilometri da Kramatorsk – per terra c’è ancora un po’ d’asfalto. Poi si passa allo sterrato, che da queste parti si traduce in una continua gincana tra dune polverose, cavalli di frisia e ponticelli pericolanti.
Tuttavia, per quanti mezzi possano essere lanciati su questa nuova direttiva, da oggi neanche uno di essi arriverà mai a Severodonetsk. Abbiamo gironzolato per le strade di Siversk’, incrociando di tanto in tanto gli sguardi cupi di qualche sparuto gruppo di civili. Qui – come altrove – non è rimasto più nulla. Nell’unico negozietto rimasto aperto si vendono unicamente biscotti secchi, acqua in bottiglia e insaccati industriali. Non è rimasto altro. Non c’è più luce né gas, e anche la linea telefonica ha smesso di funzionare. «Ci avevano promesso gli aiuti umanitari – spiega una signora dai capelli precocemente incanutiti -, ma chi li ha mai visti? Una mia vicina ha iniziato ad allevare le nutrie. D’altronde si possono mangiare anche quelle, ed è sempre meglio che morire di fame».
COSA C’È DA VEDERE a Siversk’? L’attrazione principale, da tre mesi a questa parte, sono i crateri delle bombe. Ce ne sono in ogni via, e ovunque c’è qualche civile disposto a scortarti fin sul posto. «Questa qui è molto grande – annuncia un anziano indicando la voragine di un Grad -. Ma sapete? Se andate laggiù in fondo, oltre quel palazzo, ce n’è una ancora più grande…». Quali sono le speranze di questa gente? Vogliono che vinca l’Ucraina o la Russia? Oppure non gliene importa nulla, purché le nutrie possano tornare a razzolare nei fossi e i Grad se ne stiano chiusi nei loro arsenali? Difficile dirlo. Quel che è certo, almeno stando alle cronache degli ultimi giorni, è che la pace resterà un’utopia ancora per molto tempo.
Dopo aver chiuso in una morsa Severodonetsk – che presumibilmente verrà lasciata al proprio destino – Putin potrebbe replicare lo stesso schema anche altrove. È dell’altroieri la notizia della caduta di Lyman, che da Sloviansk dista meno di trenta chilometri. Anche qui, gli ucraini si sarebbero ritirati oltre il fiume Severskij Donec, facendo saltare l’ultimo ponte ancora transitabile. Il guado del corso d’acqua non sarà cosa facile – i russi ci hanno provato già più volte nelle scorse settimane, ma i loro movimenti sono sempre stati intercettati per tempo dai droni dell’esercito di Kiev. Però resta in ballo il fronte sud, che da Popasne si sta allungando in direzione di Bakhmut – e lì non ci sono né fiumi né torrenti a frenare l’avanzata dei russi.
IERI POMERIGGIO, proprio a Bakhmut, l’artiglieria di Mosca ha colpito un grosso stabilimento industriale. Il fumo era visibile a chilometri di distanza, tra il boato dei missili e i sibili della contraerea. Qui tutto sembra ormai pronto a contenere la prossima avanzata degli invasori. Le strade della cittadina – 73mila abitanti nel 2021 – rigurgitano di soldati e mezzi militari. Gli uomini ai block post appaiono sempre più sbrigativi e nervosi, così come i molti residenti che hanno deciso di restare nonostante la guerra.
Dove sia esattamente il fronte non è chiarissimo, ma tutti i territori che si estendono a nordest dell’autostrada M03 – che giungendo da Sloviansk sfiora l’estrema periferia del centro abitato – sono considerati piuttosto insicuri. Molte strade sono state minate e le batterie di Grad si spostano con nonchalance tra le strade del centro. Billy Nessen, un volontario newyorchese che fino all’altroieri viveva nel centro per gli aiuti umanitari di Severodonetsk, è una delle poche note stonate in questo paesaggio uniforme fatto di verde mimetico e fumo grigio.
Barba incolta da avventuriero, capelli arruffati, 65 anni portati benissimo e un figlio di tre che lo aspetta negli States. Il suo sogno oggi è quello di tornare a Severodonetsk (che lui, all’americana, ha ribattezzato «Siwìro»), dalla quale è stato evacuato controvoglia e dove altri volontari come lui continuano a darsi da fare per soccorrere i civili rimasti intrappolati sotto le bombe. Sembra una follia, ma Billy sostiene di aver sentito parlare di un nuovo percorso alternativo che non contempla l’utilizzo di ponti ma implicherebbe, in compenso, uno spericolato guado del fiume in mezzo alle sparatorie. «Guys, I can do it», sostiene sorridendo. Noi, in cuor nostro, speriamo veramente che ce la faccia.
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