Settimane, forse mesi: Netanyahu senza freni
Invado avanti Il consigliere Usa Sullivan incontra il governo israeliano e gli chiede di ammazzare di meno. Ma non ottiene date di scadenza. Bombe su Rafah, «luogo sicuro». Non hanno pace neanche i morti: demolito il cimitero di al-Faluja
Invado avanti Il consigliere Usa Sullivan incontra il governo israeliano e gli chiede di ammazzare di meno. Ma non ottiene date di scadenza. Bombe su Rafah, «luogo sicuro». Non hanno pace neanche i morti: demolito il cimitero di al-Faluja
«Siamo sotto assedio totale da sette giorni». Il messaggio audio di Ahmed Muhanna, direttore dell’ospedale Al-Awda a Gaza nord viene recapitato nel primo pomeriggio a decine di giornalisti nei gruppi WhatsApp per i media internazionali. È un grido di aiuto e una lista di abusi: «I carri armati circondano l’ospedale, uno blocca l’ingresso. Hanno colpito due piani, distrutto chirurgia. Sono morti tre medici, due infermieri sono rimasti gravemente feriti. Un’anestesista ha ustioni sull’80% del corpo. Hanno colpito anche le cisterne dell’acqua, non ne abbiamo più».
NELL’AL-AWDA restano ancora 98 tra medici e infermieri, 36 pazienti – per lo più donne e bambini – e 38 loro familiari. «Da 68 giorni, dal 7 ottobre, qui non è arrivato nessun aiuto medico, di quelli entrati da Rafah qua non è riuscito ad arrivare niente – continua Muhanna – Siamo a corto di cibo, l’ossigeno è finito, il carburante è finito. Chiediamo l’aiuto della Croce Rossa e dell’Oms».
Nelle stesse ore su al Jazeera veniva pubblicata un’intervista con Aboud, 12 anni. È uno dei pazienti evacuati dall’Indonesian Hospital. Costretti a evacuare: «Ci hanno sparato addosso, tutti i feriti si sono buttati a terra per non essere colpiti. I proiettili entravano dai muri». Alla fine sono usciti, «non c’era altra scelta», sono saliti su un bus e l’esercito li ha fermati: «Ci prendevano in giro, ci hanno lasciato tutti al freddo, fuori dall’autobus».
Le storie che riescono a uscire da Gaza raccontano pezzi del mosaico. Quello degli ospedali è tra i più dolorosi, luoghi di cura tramutati in trappole. Ieri la Mezzaluna rossa ha fatto sapere di aver perso i contatti con il proprio staff a Gaza e con le ambulanze: sono saltati di nuovo internet e reti telefoniche. È il quinto blackout dal 7 ottobre.
Senza rete non c’è modo di far funzionare le 101 centrali operative. «Siamo spiacenti di comunicare la completa cessazione di tutte le comunicazioni con la Striscia di Gaza a causa dell’aggressione in corso. Possa Dio proteggere voi e il nostro paese», ha scritto la compagnia Paltel su X.
IMPEGNATI nel reperimento del cibo, il telefono potrebbe sembrare una futilità. Non lo è. Anche quando si impegnano le giornate a fuggire e a cercare qualcosa da mangiare. Philippe Lazzarini dell’Unrwa (l’agenzia Onu per i rifugiati palestinesi) ieri a Ginevra ha detto che «la gente sta fermando i camion di aiuti, prende il cibo e lo mangia subito, sul posto». I camion non arrivano a destinazione per la distribuzione, vengono assaltati prima, «la gente non mangia da due, tre giorni».
«Ogni volta che ci torno – ha aggiunto – è peggio. Gaza non è più un luogo abitabile. Rafah ha quadruplicato il numero di persone in una notte. Manca tutto, non è un posto dove possono stare un milione di persone. Le famiglie vivono divise da una coperta, un lenzuolo».
Eppure a Rafah, il luogo in cui l’esercito israeliano «invita» i gazawi a spostarsi, i bombardamenti continuano. Almeno 26 gli uccisi ieri all’alba quando sono stati centrati due edifici residenziali. Le ore successive sono state trascorse a scavare tra le macerie. I giornalisti sul posto dicono che sotto sono rimasti dei bambini.
Difficile dire quanti, in ogni caso secondo l’ong britannica Medical Aid for Palestinians a breve si toccherà quota 10mila minori uccisi. I numeri accertati per ora parlano di 18.787 vittime totali, ma sono al ribasso, a migliaia sono dispersi.
PACE NON CE L’HANNO nemmeno quelli che sono già morti: ieri la Bbc ha pubblicato, dopo le verifiche, un video che mostra la devastazione del cimitero di al-Faluja a nord, raso al suolo dal passaggio dei carri armati israeliani. In tale contesto, ieri in Israele è arrivato Jake Sullivan, il consigliere della Casa bianca alla sicurezza nazionale. È venuto a dire, e ha detto, che Tel Aviv deve ammazzare di meno.
Il pressing del presidente Biden cresce, sulla spinta di quello che subisce lui, in casa e fuori. Il governo israeliano risponde con dichiarazioni contrastanti: il ministro della difesa Gallant ha detto a Sullivan che saranno necessari «diversi mesi» per sconfiggere Hamas, ma secondo funzionari Usa sentiti dalla Bbc le autorità israeliane hanno parlato dietro le quinte di «due o tre settimane».
Che non significa, specificano, la fine delle operazioni militari, ma una riduzione della loro intensità. Da parte sua Sullivan avrebbe insistito: Israele sta perdendo molti alleati, è andato troppo oltre. Parole che seguivano all’esclusiva della Cnn: secondo l’intelligence Usa, il 40-45% delle bombe sganciate su Gaza da Israele non sono guidate, non sono munizioni «intelligenti» ma colpiscono in modo indiscriminato.
UN ACCORDO sui tempi dell’offensiva non si è trovato, seppur anticipato dalla Casa bianca prima dell’arrivo del consigliere all’aeroporto Ben Gurion. Secondo il portavoce Kirby, «vogliamo che finisca prima possibile ma non imponiamo agli israeliani una scadenza».
A rispondere è Hamas con Osama Hamdan da Beirut: se gli Stati uniti vogliono «la fine dell’aggressione israeliana», smettano di porre il veto alle risoluzioni delle Nazioni unite al Consiglio di Sicurezza.
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