Separazione delle carriere, riflessioni sul caso Eni
Giustizia Ha poco da esultare la destra per la condanna dei due pm De Pasquale e Spadaro. Con la riforma che propone il governo, non cercare le prove a discarico sarebbe la regola
Giustizia Ha poco da esultare la destra per la condanna dei due pm De Pasquale e Spadaro. Con la riforma che propone il governo, non cercare le prove a discarico sarebbe la regola
C’è una relazione fra il processo di Brescia a Sergio Spadaro e Fabio De Pasquale e la separazione delle carriere? Certo che c’è. Lascio fuori dal ragionamento la convinzione che non abbiano commesso alcun reato: anzi, parto proprio dal presupposto che il reato ci sia. I pm milanesi, si dice, avrebbero nascosto prove che potevano scagionare gli imputati del processo Eni. Gli elementi provenivano, a processo sostanzialmente terminato, da un’altra indagine, trattata da un altro magistrato. Questi trasmette un’annotazione della Guardia di Finanza non firmata, che instilla dubbi sulla credibilità di Armanna, uno dei principali testimoni di accusa.
I due pm ritengono il materiale non attendibile e, informati i dirigenti dell’ufficio, decidono di non depositarlo. Quando il fatto diventa pubblico, ecco l’indagine, il rinvio a giudizio e, avantieri, la condanna. Era un dovere per il pm, organo di giustizia come il giudice, rendere noti quegli elementi alla difesa, nonostante la convinzione che si trattasse, semplifico, di una polpetta avvelenata. E se non compi un atto che è dovuto per ragioni di giustizia, commetti un reato. Ripeto la domanda: e la separazione delle carriere?
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Autonomia, la falsa retorica dell’efficienzaInnanzitutto, l’indagine prima e la sentenza poi dimostrano la falsità della narrazione secondo cui il giudice condanna o assolve perché glielo chiede il collega pm. Come se il chirurgo chiamato per una possibile appendicite dicesse: «Guarda collega, non c’è l’appendicite, ma per non farti fare brutta figura lo opero lo stesso». Invece i giudici di Milano prima e di Brescia poi non sono stati minimamente influenzati dal vincolo di colleganza con i pm De Pasquale e Spadaro. Questi chiedevano la condanna e hanno ottenuto l’assoluzione, dove invocavano l’assoluzione (per sé stessi) sono stati condannati.
C’è però un altro aspetto. Il pm separato, corpo autonomo, autoreferenziale, quello voluto dalle Camere Penali e dal ministro che ha recepito il loro progetto, una volta fuori dall’alveo della giurisdizione, perché mai dovrebbe conservare l’abito del giudice e perseguire con imparzialità un risultato di giustizia anche quando ciò smentirà il lavoro della polizia?
In un mondo ideale si potrebbe dire: «Che c’entra, anche se non fai parte della giurisdizione puoi rimanere un organo imparziale». Appunto, in un mondo ideale: ma la vita, non solo professionale, è fatta di relazioni. La carriera, la formazione, l’autogoverno comuni, producono una cultura comune, la cultura della giurisdizione, che è del giudice come del pm, che persegue la giustizia e non la condanna.
Senza punti comuni, sarà inevitabile l’osmosi con l’altro corpo con cui il pm lavora, la polizia. Sarà naturale assumere lentamente, ma inesorabilmente, i panni dell’avvocato della polizia (Berlusconi insegna). E l’avvocato della polizia, sia pure pubblico, verrà giudicato, farà carriera, sulla base dei successi e delle condanne ottenute.
Chi potrà mai obiettare a un pm avvocato della polizia di non aver tenuto conto di una prova a favore dell’imputato? Se mi giudichi in base alle condanne che ottengo, come ti salta in mente di rimproverarmi per averne ottenuta una in più? E allora io non capisco come si può avere a cuore i diritti dei cittadini indagati e perseguire al tempo stesso la separazione delle carriere. E non capisco la gioia dei giornali di destra per una condanna che, con la separazione delle carriere, non sarebbe mai arrivata.
Ciò che si addebita oggi a Spadaro e De Pasquale sarebbe, a carriere separate, motivo di encomio. Per chi invece sostiene la separazione, questa vicenda può essere un utile motivo di riflessione.
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