Nel discorso del 24 febbraio 2022, Vladimir Putin ha dichiarato che l’«operazione militare speciale» in Ucraina rispetta la Carta delle Nazioni unite, a cominciare dal «diritto intrinseco di autodifesa» riconosciuto dall’art. 51. Non è la prima volta che il diritto legittima la guerra di aggressione. Nell’antica Roma un corpo specializzato di giudici-sacerdoti si incaricava di eseguire le procedure previste per il bellum iustum.

Nella tarda antichità l’espressione ha assunto un valore morale, allo scopo di legittimare la partecipazione dei cristiani agli eserciti e ai combattimenti, neutralizzando i precetti evangelici nonviolenti, dalle crociate alla conquista dell’America. In quel contesto Francisco de Vitoria reinterpreta la teoria della guerra giusta basandola sui diritti naturali universali, ma Bartolomé de Las Casas la rovescia a favore degli indiani. La teoria sembra avere esaurito la sua funzione; d’altra parte nell’epoca degli Stati sovrani i poteri universali del papa e dell’imperatore sono un ricordo e non c’è chi decide sulla giusta causa. Secondo Thomas Hobbes, le varie moltitudini hanno trasferito i loro poteri al sovrano che stabilisce il giusto e l’ingiusto e sanziona chi trasgredisce, ma questo non avviene a livello internazionale: il diritto delle genti si riduce all’esortazione rivolta alle coscienze dei sovrani dato che non c’è un super leviatano che lo renda coattivo.

Un secolo dopo gli illuministi rilanciano: se le cose stanno così, costruiamo un federazione di popoli che svolga questa funzione, fondiamo il diritto cosmopolitico e realizziamo la pace perpetua. È il progetto del pacifismo giuridico, la «pace attraverso il diritto», che conosce una serie di riformulazioni teoriche, da Immanuel Kant a Hans Kelsen che si affida a un tribunale globale, alla radicale proposta di una costituzione della Terra redatta da Luigi Ferrajoli. E incontra una serie di sconfitte nelle sue realizzazioni pratiche: la Società delle Nazioni, le Nazioni unite con la loro struttura gerarchica e l’impotenza di fronte ai veti incrociati delle grandi potenze, la Corte penale internazionale.

Nel frattempo la teoria morale della guerra giusta è resuscitata: aggiornata da Michael Walzer, è tornata a circolare, paradossalmente, dopo la fine della Guerra fredda quando le speranze del pacifismo giuridico sembravano riprendere vigore. Negli anni successivi la guerra è stata giustificata adottando un sistema di porte girevoli: giuristi più o meno embedded si sono impegnati nell’aggiornare il diritto dei conflitti e nell’elaborare norme per la war on terror, fino alle aberrazioni del «diritto penale del nemico». Ma quando proprio non si trovava un legittimazione giuridica, si approfittava della casuistica «etica militare». Caso esemplare sono i bombardamenti sulla Jugoslavia nel 1999: in assenza di un mandato del Consiglio di sicurezza, Antonio Cassese ha teorizzato subito una «consuetudine istantanea» che legittimerebbe questo tipo di interventi, ma è prevalso l’appello etico all’«umanità» contro la «bestialità» dei serbi, secondo le parole di Jürgen Habermas.

Nel 2003 l’aggressione all’Iraq, dopo il fallimento della sceneggiata di Colin Powell alle Nazioni unite, è stata motivata con il riferimento alla verità di valori universali curiosamente identici ai principi dell’American way of life. Ma anche Obama ha ampiamente citato la guerra giusta nel discorso di accettazione del premio Nobel per la pace, preventivo all’escalation dell’uso dei droni che ha caratterizzato la sua amministrazione. Una pratica che viola il diritto internazionale e sconvolge ogni tradizionale «etica di guerra»; ma non mancano filosofi morali e appositi giuristi impegnati nel legittimarla.

Dal 1989 il discorso della guerra giusta ha contagiato, se non cannibalizzato, il pacifismo giuridico. Come per dare ragione a Carl Schmitt, che coglieva nella criminalizzazione dell’aggressione il ritorno di un «concetto discriminatorio di guerra» sulla base del quale la superiorità tecnologica è vista come la prova della propria giusta causa.

Schmitt in realtà era relativamente ottimista sulle potenzialità del diritto nel limitare la guerra: questo sarebbe avvenuto tra il XVI e il XIX secolo, quando gli Stati cristiani europei hanno realizzato «la forma più alta di ordine di cui le forze umane siano capaci».

Ma ciò era possibile in quanto al di là dei confini dell’Europa vigeva il «libero e spietato uso della violenza», che permetteva «un enorme sgravio della problematica intraeuropea». Dalla conquista dell’America all’uso dei gas nell’aggressione italiana all’Etiopia.

Il diritto, in molte situazioni, ha contribuito a legittimare la guerra; dove ha svolto una funzione di limitazione e relativo addomesticamento, lo ha fatto in certi ambiti, scaricando la violenza sfrenata e incontrollata al di là di essi. Quando ha punito responsabili e criminali, lo ha fatto in modo selettivo e asimmetrico.

E tuttavia non si deve dimenticare il senso di sgomento che si provava all’epoca di W. Bush, con la «moralizzazione immediata delle relazioni internazionali», interfaccia ideologica del progetto egemonico globale nel frattempo naufragato. Per costruire la pace occorre affrontare le radici economiche, sociali, culturali, antropologiche della guerra. Il diritto non è sufficiente. Ma nonostante i fallimenti e le aporie, è una risorsa necessaria.

Il diritto può svolgere funzioni regressive e funzioni progressive; questo ha a che fare, più che con l’auspicabile virtù di legislatori e giudici illuminati, con i processi e le lotte che lo modificano e lo indirizzano.

*docente di Filosofia del diritto, Università di Camerino – Presidente di Jura gentium