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Senza casa non c’è ritorno

Una donna lascia Khan Younis dopo l’ordine israeliano di evacuazione foto Ap/Abdel Kareem HanaUna donna lascia Khan Younis dopo l’ordine israeliano – Ap/Abdel Kareem Hana

Gaza Come nel 1948 radere al suolo città e villaggi serve a ostacolare la rinascita della comunità. Netanyahu è l’unico primo ministro israeliano, dagli anni ’70 a oggi, a non aver mai portato a termine un accordo con i palestinesi: non c’è motivo di pensare che inizierà ora

Pubblicato 3 mesi faEdizione del 18 agosto 2024

Nell’agosto di 76 anni fa, le autorità israeliane formalizzarono il «Comitato di trasferimento», finalizzato a impedire il ritorno dei profughi palestinesi e a favorire il loro assorbimento permanente nei paesi limitrofi. Venne accompagnato da una serie di politiche volte a ripopolare decine di villaggi palestinesi – ne vennero sfollati 418 – con migliaia di olim khadashim («nuovi immigrati») arrivati in Israele per lo più nei mesi precedenti e nei quattro anni successivi a quegli eventi.

LARGA PARTE dei profughi palestinesi non si riversò tuttavia nei paesi limitrofi: “preferì” accamparsi lungo la cosiddetta striscia di Gaza, con la speranza di tornare il prima possibile nelle loro case. Negli ultimi mesi, soprattutto nel nord della striscia di Gaza, dove risiedevano 1,2 milioni di palestinesi e dove ne restano circa 200mila, l’esercito israeliano ha detonato e raso al suolo intere aree e quartieri: la storia, parafrasando Mark Twain, non è mai uguale, ma sovente fa rima.

William Dalrymple ha scritto che le «operazioni di distruzione» in corso ricordano «lo stile di Gengis Khan». Al di là della provocazione, mirano anche, se non soprattutto, a convincere una larga parte dei palestinesi – almeno 115mila gazawi hanno raggiunto, previo pagamento di ingenti somme, l’Egitto – ad abbandonare ogni speranza di poter tornare nelle loro case. Queste ultime, semplicemente, non esistono più.

Ciò non stupisce. Sei giorni dopo l’attentato compiuto da Hamas il 7 ottobre 2023, il presidente israeliano Isaac Herzog era stato chiaro: «Non ci sono civili innocenti a Gaza. C’è un’intera nazione là fuori che è responsabile». Già due mesi più tardi, in data 9 dicembre, un’inchiesta congiunta del Guardian e di Haaretz documentava che «la proporzione di morti civili nella Striscia di Gaza è superiore a quella di tutti i conflitti mondiali del XX secolo».

Tali dati sono peraltro in linea con quelli pubblicati cinque mesi più tardi dall’Onu, secondo cui «almeno il 56% dei palestinesi uccisi nella guerra di Gaza è composto da donne e bambini»: ad essi vanno aggiunti i giovani uomini e gli adulti che non hanno nulla a che vedere con Hamas e le altre fazioni militari palestinesi.

La ragione per la quale una parte dei 16mila bambini palestinesi uccisi negli ultimi dieci mesi non presenta ferite visibili («sembra quasi che dormano») è riconducibile all’utilizzo di bombe termobariche: queste ultime utilizzano l’ossigeno dell’aria circostante per generare esplosioni ad alte temperature.

Nonostante le chiare evidenze, alcuni minimizzano o mettono in dubbio la strage di bambini in corso: i «negatori della realtà» sono sempre esistiti e vanno inquadrati come tali. Altri giustificano l’uccisione di decine di migliaia di civili sostenendo che essi sono usati come «scudi umani» da Hamas.

LA LEGGE INTERNAZIONALE – così come il buon senso – non contempla il diritto di bombardare e radere al suolo interi edifici pieni di civili sulla base della presunta presenza di uno o più terroristi. A ciò si aggiunga che le autorità israeliane hanno nascosto armi e gruppi terroristici all’interno di ospedali e sinagoghe fin da prima della fondazione dello Stato: ciò viene ricordato anche in diverse placche commemorative esposte a Tel Aviv e altre città israeliane.

Ultimo ma non meno importante: esistono decine di video a riprova del fatto che i palestinesi – compresi giovani uomini e bambini – sono sovente utilizzati dai soldati israeliani come scudi umani durante le loro operazioni militari.

Nonostante queste considerazioni, i dati apocalittici che le sottendono, le crescenti proteste registrate nelle piazze israeliane e i timori per la sorte degli ostaggi israeliani, un cessate il fuoco appare più che mai come una chimera. Netanyahu è l’unico primo ministro israeliano, dagli anni Settanta a oggi, a non aver mai portato a termine un qualsiasi tipo di accordo – di pace o di altro tipo – con i palestinesi: non c’è motivo di pensare che inizierà ora.

Al contrario: è proprio per la sua pluridecennale avversione a un qualsiasi accordo che il primo ministro israeliano può contare sul pieno sostegno di Otzma Yehudit (Potere ebraico), il partito guidato dal ministro della sicurezza nazionale Itamar Ben Gvir, condannato nel 2007 in via definitiva da un tribunale israeliano per incitamento razziale e sostegno al terrorismo.

Eppure, un cessate il fuoco appare più che mai necessario. Non solo in quanto garantirebbe il ritorno a casa degli ostaggi israeliani ancora in vita e porrebbe fine a una mattanza dai contorni epocali, ma anche perché costringerebbe quanti hanno votato per i partiti al governo in Israele a prendere atto del fatto che l’occupazione permanente dei territori palestinesi e l’oppressione strutturale dei suoi abitanti non porterà alla vittoria auspicata: l’unico modo per vivere in piena sicurezza passa attraverso un compromesso politico che includa anche i diritti dei palestinesi.

E TORNIAMO al contesto, troppo spesso omesso o assente. Se per discutere di ciò che sta avvenendo a Gaza si deve al contempo necessariamente parlare dei crimini compiuti da Hamas il 7 ottobre, ne deve conseguire che per discutere dei crimini del 7 ottobre sia necessario allo stesso tempo parlare del contesto vissuto dalla «controparte».

Ad esempio della pluridecennale occupazione dei territori palestinesi, del fatto che tra l’1 gennaio 2008 e il 6 ottobre 2023 sono stati uccisi 6.407 palestinesi e 308 israeliani, delle migliaia di palestinesi che sono detenuti nelle carceri israeliane senza accuse né processi, del pogrom di Huwara del febbraio 2023, oppure, tra molto altro, dei dati ufficiali forniti dall’Unicef che in data 18 settembre 2023 sottolineava che i primi nove mesi dello scorso anno erano stati quelli con il maggior numero di bambini palestinesi uccisi nella Cisgiordania occupata.

Tutto ciò per dire che il contesto o vale sempre – e sarebbe l’opzione auspicabile – o non vale mai. Studiarlo non è certo un modo per condonare crimini e violenze, bensì un antidoto alle narrazioni facili. La negazione e la disumanizzazione degli “altri” sono ben visibili tanto tra i palestinesi (Hamas ne è solo un esempio) quanto tra gli israeliani (si vedano, tra molto altro, i “principi di base” messi nero su bianco dal governo israeliano il giorno del suo insediamento).

La pluridecennale presenza di un esercito occupante e di milioni di civili sotto occupazione militare è invece una condizione vissuta, rispettivamente, solo da una delle due parti in causa.

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