Se vince il No Renzi lascia, per restare
Il presidente del Consiglio non può che dimettersi in caso di sconfitta, ma il capo dello stato gli chiederebbe di restare e verificare la possibilità di cambiare la legge elettorale. Ma a pochi mesi dalle elezioni un accordo tra i partiti è difficile e si tornerebbe a guardare alla Corte costituzionale
Il presidente del Consiglio non può che dimettersi in caso di sconfitta, ma il capo dello stato gli chiederebbe di restare e verificare la possibilità di cambiare la legge elettorale. Ma a pochi mesi dalle elezioni un accordo tra i partiti è difficile e si tornerebbe a guardare alla Corte costituzionale
La parola fine la stanno scrivendo gli elettori, ma la storia della riforma costituzionale coincide da quasi tre anni con un’altra storia: quella delle dimissioni annunciate di Matteo Renzi, in caso di sconfitta al referendum di oggi. Se vincerà il No, il presidente del Consiglio non avrà quindi alternative: presenterà le sue dimissioni al presidente della Repubblica domani stesso. Perché lo ha promesso – più esattamente minacciato – il giorno esatto in cui ha presentato per la prima volta la sua bozza di nuova costituzione, il 12 marzo 2014. Era a palazzo Chigi da appena due settimane e fu molto chiaro: «Se non riesco a portarla a termine mi dimetto e lascio la politica».
Solo nelle ultime settimane quell’annuncio si è molto sfumato, per evitare la «personalizzazione» che i sondaggi hanno indicato come controproducente, e anche per ascoltare gli inviti del presidente della Repubblica a rispettare la naturale separazione tra una consultazione referendaria e i destini del governo. La seconda parte di quella promessa-minaccia, anzi, si può dire che sia stata ritirata definitivamente. Renzi non lascerà la politica. Ma proprio per non lasciarla ha bisogno di una via d’uscita dal No ragionata e accorta. Che comincia con le dimissioni.
La sconfitta – così come la vittoria dei Sì – sarà in ogni caso di misura, dunque per Renzi è difficilmente ipotizzabile uno scenario di fuga dalle responsabilità. Mattarella farà le sue veloci consultazioni e proverà a chiudere la crisi chiedendo al presidente del Consiglio dimissionario di verificare in parlamento se ancora esiste una maggioranza. Che senz’altro esiste, anche perché – consegnato alla storia il referendum – si riprenderà immediatamente a temere il giudizio europeo sui conti dell’Italia. Letteralmente dal giorno dopo: domani e martedì sono infatti in programma a Bruxelles due vertici fondamentali ai quali parteciperà il ministro Padoan: Eurogruppo ed Ecofin.
La legge di Bilancio, che ha sollevato qualche dubbio in sede europea (ma sulla quale non è stato affondato il giudizio proprio per non danneggiare il governo nel referendum), avrà bisogno di qualche ritocco, ma dentro la normale dialettica tra le camere. Escluso ogni rischio di esercizio provvisorio, visto che la manovra c’è e sarà approvata. E da tempo sappiamo che il giudizio della Unione sugli «squilibri» nei conti italiani arriverà assieme a quello sugli altri paesi in «terza fascia», nella prima parte del 2017.
Renzi per mostrarsi coerente rispetto al suo impegno ha bisogno che sia una maggioranza a chiedergli di restare. Non può esserci dubbio che sarà così, visto che già adesso tutto il suo partito e anche parte dell’opposizione sta dicendo che deve restare. Se però bersaniani e minoranze vogliono tenerlo a palazzo Chigi per logorarlo in vista delle elezioni, Renzi tenterà la manovra opposta. Anche contando sui due appuntamenti importanti in programma nella primavera del prossimo anno, il 60esimo anniversario dei trattati di Roma (marzo) e il vertice del G7 (maggio).
La vera difficoltà sarà però sulla legge elettorale, l’emergenza reale per un governo di transizione. L’eventuale vittoria dei No scoprirebbe infatti l’azzardo di Napolitano e Renzi, quello dell’Italicum imposto a prescindere dal sistema istituzionale nel quale doveva essere inserito. Fare una nuova legge elettorale diventerà indispensabile, ma anche assai complicato alla vigilia delle elezioni politiche. Troppi e contrapposti gli interessi dei partiti, soprattutto nell’imminenza della sfida. Non a caso la precedente legge elettorale ha resistito dieci anni malgrado gli evidentissimi difetti: c’è voluto un governo in grado di minacciare lo scioglimento delle camere per cambiarla, e c’è voluta la fiducia. Al Renzi-bis non sarebbe data questa possibilità.
I partiti perciò tornerebbero a guardare alla Corte costituzionale, che prima del referendum ha rinviato il giudizio sull’Italicum, atteso adesso tra gennaio e febbraio. I punti sui quali la Consulta è attualmente chiamata a giudicare (da cinque tribunali), se accolti, consentirebbero una riscrittura della legge certamente migliorativa, ma in ogni caso non compatibile con la vittoria del No e dunque con la sopravvivenza del senato elettivo. Perché l’Italicum è una legge scritta per la sola camera e il ballottaggio che ne costituisce il cuore non consente che venga semplicemente estesa anche al senato. Due ballottaggi, infatti, potrebbero dare due risultati diversi, rendendo il parlamento ingestibile.
La via d’uscita della Corte costituzionale, allora, potrebbe essere quella di giudicare L’Italicum incostituzionale nella sua interezza, vuoi perché approvato con la fiducia (la Costituzione all’articolo 72 sembra escludere questa possibilità), vuoi perché il premio di maggioranza grande o grandissimo che sia può essere considerato comunque illogico in presenza di un’altra camera ugualmente titolare della fiducia, il senato, da eleggere con il sistema proporzionale. Si potrebbe tornare, cioè, alla situazione del 2014, con il Consultellum come punto di caduta. E molto meno tempo per evitare di caderci.
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