Il recente docu-film Lotta Continua di Tony Saccucci si apre con Erri De Luca che descrive il Millenovecento come «un secolo di rivoluzionari» e la sua come «l’ultima generazione di rivoluzionari del Millenovecento». Un’affermazione indicativa di come nel nostro paese non sia stata ancora sufficientemente interiorizzata la subcultura rave e, soprattutto, non si sia ancora del tutto compreso cosa essa abbia rappresentato all’interno della storia dei movimenti e delle lotte del decantato Millenovecento. Nel tentativo di limitare questa lacuna, di seguito se ne ricostruisce la sua storia politica focalizzandosi intenzionalmente su quanto avvenuto in Inghilterra, considerati i numerosi parallelismi tra il neoconservatorismo thatcheriano e quanto stiamo osservando da qualche anno in Italia.

La subcultura rave e i free party non escono fuori dal nulla, ma si sviluppano all’interno di un decennio segnato dai tentativi di mutazione in senso neoliberista della società inglese. Un periodo di politiche reazionarie, iniziato nel 1984 con il piano di Margaret Thatcher di smantellare l’industria del carbone britannica, e conclusosi nel 1994 con il Criminal Justice Act che criminalizza le feste esterne al circuito delle discoteche. In mezzo, lo sciopero dell’Unione Nazionale dei Minatori, in grado di paralizzare per un anno il piano del governo, il quale rispose con una militarizzazione delle forze dell’ordine e lo sviluppo di una rete di intelligence per bloccare preventivamente i manifestanti, arrestandone più di 10mila.

E ancora, la battaglia di Beanfield del giungo 1985, quando alla Carovana della Pace composta da neo-hippy (il termine corretto sarebbe New Age travellers) fu impedito con la forza di proseguire verso Stonehenge, dove si sarebbe tenuto un importante festival libero. Anche in questo caso, il blocco stradale servì a limitare la libera circolazione ed arrestare seicento persone, oltre che a devastarne ogni mezzo e proprietà. Uno dei più grandi arresti di massa di civili nel secondo dopoguerra inglese e un passaggio evolutivo della repressione thatcheriana, perché inizia ad essere limitato il diritto dei cittadini di riunirsi liberamente senza autorizzazione preventiva.

Si arriva così alla cosiddetta second summer of love del 1988, dopo quella hippy del 1967, nata in discoteche leggendarie come l’Haçienda di Manchester e Shoom di Londra per poi estendersi su tutto il territorio britannico (con eventi che arrivano alle 11mila presenze), in cui due nuove tecnologie di importazione statunitense – la musica acid house e la 3,4-Methylenedioxymethamphetamine, nota ai tempi come ecstasy e oggi come Mdma – sovvertono le regole dell’industria del divertimento. Soprattutto in questa prima fase, il dancefloor è un’utopia realizzata perché riunisce hooligan, figli e figlie della classe media, Bipoc e alternativi vari. In opposizione all’individualismo tacheriano del «there’s no such thing as society», si creano ogni weekend micro-comunità fondate sui principi dell’empatia e dell’uguaglianza.

Nella tradizione di quello che i sociologici chiamano panico morale, la prima reazione dei ‘cittadini perbene’ fu una campagna mediatica diffamatoria, fatta di bufale e allarmismo paranoide. A cui si aggiunse un attacco autoritario senza precedenti nella storia delle subculture giovanili, con il cosiddetto Acid House Bill del 1990 che incrementò le sanzioni per le feste organizzate senza licenza e l’istituzione della Pay Party Unit, una forza speciale di polizia che si serviva delle strategie sviluppate contro i minatori (intercettazioni telefoniche, circolazioni di informazioni false, raid violenti e confische, arresti arbitrari, blocchi stradali e così via). Nel 1984 ci si era interrogati sulla legittimità di certe misure, lo stesso non accade pochi anni dopo: il presunto pericolo delle feste a pagamento non autorizzate andava fermato ad ogni costo (anche economico).

La manovra punitiva fallisce miseramente perché il genio collettivo della scena elettronica – quello che Simon Reynolds battezza scenio – radicalizza il portato della propria lotta sonica. Sound system come la Spiral Tribe e i Techno Travellers fondono subcultura rave, Do It Yourself punk e nomadismo freak per dare vita ai free party. Il disgusto nei confronti della commercializzazione degli eventi legali li porta a posizioni anticapitaliste e egualitarie totalizzanti: non c’è nessun biglietto o selezione all’ingresso, tutti sono benvenuti. Similmente si risponde alla crescente privatizzazione degli spazi pubblici con l’occupazione di fabbriche e altri luoghi abbandonati. I rave smettono di essere semplicemente feste, per diventare delle Zone Temporaneamente Autonome à la Hakim Bey.

L’evento più significativo del periodo fu il ‘festival’ rave a Castlemorton Common del 1992, una festa lunga una settimana, totalmente gratuita, a cui parteciparono 40mila persone. Il più grande evento libero dai tempi di Stonehenge. Dopo l’arresto dei presunti organizzatori, venne allestito un processo farsa come quello nixoniano ai Chicago Seven che, allo stesso modo, risultò in un nulla di fatto, se non dimostrare pubblicamente l’integrità e l’intelligenza degli imputati. E poi, il Criminal Justice Bill del 1994 che criminalizza qualsiasi raduno all’aperto di almeno venti persone dove è amplificata musica caratterizza «da una successione di battiti ripetitivi». Per la prima volta nella storia, una democrazia arriva a considerare un genere musicale tanto sovversivo da doverlo vietare.

Questa ed altre nefandezze contenute nella legge creano un’alleanza tra raver, squatter, traveller, anarchici, eco-attivisti e, tra le varie azioni messe in campo, le street parade rivoluzionano le tradizionali modalità dello stare in piazza durante una manifestazione, introducendovi il delirio danzante dei free party. Nella sola Londra si passa nel 1994 dalle 20mila presenze del Primo Maggio alle 100mila del 9 ottobre, quando la street parade diventa una gigantesca TAZ ad Hyde Park.

La ricerca-mémoire di Tobia D’Onofrio (a cui questo articolo è debitore) mette bene in luce la capacità dei raver di intensificare molteplici azioni dirette nel corso degli anni ’90, grazie alle proprie tattiche di guerriglia sonica. Ne sono alcuni esempi le proteste contro l’ampliamento della rete autostradale, le lotte per la casa e il Reclaim the streets per la difesa degli spazi pubblici e contro l’automobilizzazione delle città. Tuttavia, non ci si può limitare solo al Millenovecento, perché grazie al Carnival Against Capital organizzato a Londra nel giungo 1999 è possibile scorgere l’onda lunga dei free party su quelle che saranno le lotte no-global del nuovo millennio.

Tirando le fila, deve essere riconosciuta la capacità della subcultura rave – naturalmente anche al fuori dei limiti geografici e temporali della presente ricostruzione – di aver politicizzato il cosiddetto tempo libero, tradizionalmente approcciato con un certo elitarismo dalla critica, vedi Scuola di Francoforte e suoi epigoni movimentisti. Riuscendo in questo modo ad ampliare lo spazio del conflitto sociale ben oltre i suoi
confini abituali, estendendolo anche all’industria del divertimento. I raver hanno, prima, impiegato i saperi delle subculture che li hanno preceduti per resistere a perbenismo ed individualismo, vale a dire i due valori fondanti del neoconservatorismo thatcheriano. Poi, una volta attaccati, hanno sviluppato nuovi strumenti di lotta (i free party e le street parade) per rendere ancora più esplicito e radicale il proprio messaggio politico. Infine, hanno messo le proprie tattiche di guerriglia sonica al servizio delle proteste di fine ed inizio secolo. Per queste ragioni mi sembra sia lecito concludere alterando la celebre massima di Carl von Clausewitz: il rave non è che la continuazione della rivoluzione con altri mezzi.