Nevica sulle Alpi e fa notizia: mancano appena tre settimane alla fine della stagione, ma l’Italia nell’inverno 2023-2024 ancora non aveva visto la neve. Quest’assenza fin qui è stata un vero problema, perché prefigura e fa immaginare un nuova estate in cui ci saranno problemi di scarsità idrica, che è una delle conseguenze della siccità, cioè della mancanza di precipitazioni. Scarsità significa che la domanda di acqua sarà con tutta probabilità, a partire dalla primavera, maggiore rispetto a quella disponibile.

A metà febbraio Fondazione Cima ha pubblicato un aggiornamento dello Snow Water Equivalent, l’indicatore che misura la quantità d’acqua contenuta nella neve, «che rappresenta un’indicazione preziosa sulla quantità di riserva idrica su cui potremo contare in primavera e in estate» come spiega una nota del centro di ricerca ligure. Titolo dell’analisi: Una situazione in peggioramento per l’Italia. Il deficit è del 64% rispetto non agli anni Settanta e Ottanta – quando cresceva il mito della settimana bianca e si girava Vacanze di Natale – ma al dato mediano del periodo 2011-2022.

Spiega Fondazione Cima: «Le condizioni peggiori sono quelle degli Appennini dove, si potrebbe dire, la stagione della neve è “non pervenuta”: l’esempio più eclatante è quello del bacino del Tevere, che registra un deficit di Swe del -93%, con condizioni stazionare da novembre, quando vi è stata l’ultima nevicata significativa. Più in generale, per la regione Abruzzo, che rappresenta un indice per l’Appennino centrale, il deficit è del -85%, in forte peggioramento rispetto a gennaio».

Il problema non riguarda tanto gli esercenti degli impianti a fune, che (vaticiniamo?) avranno come sempre accesso ai ristori per mancati incassi (fino a quando non prenderemo atto che non ha senso tenere impianti aperti dove non nevicherà tendenzialmente più, in una sorta di accanimento terapeutico?), ma l’agricoltura.

Ecco allora un altro tema che dovrebbe essere portato nell’agenda politica e permeare la protesta degli agricoltori in piazza, che invece elude la questione. Come si pone il movimento dei trattori di fronte al cambiamento climatico che ogni anno provoca scarsità idrica? Domanda che resta senza risposta, in un Paese che non fa i conti con l’esigenza di modificare in qualche modo le regole della convivenza civile di fronte agli effetti del riscaldamento globale.

È stato surreale negli ultimi mesi osservare lungo le autostrade i cartelli lampeggianti che indicano l’obbligo di dotazioni invernali da metà novembre a metà aprile. Almeno fino a fine febbraio, perché in gran parte del Paese e soprattutto in Appennino (attraversato dall’A1 e dall’A24, dall’A25 e dall’A16) non ha nevicato.

Il cambiamento in corso è epocale: prenderne atto potrebbe potare a misure permanenti, capaci anche di contenere le emissioni di gas climalteranti, e quindi di acuirne la concentrazione di atmosfera. Un esempio? Nell’autunno-inverno 2023-2024, mitissimo (l’autunno in Italia è stato il più caldo dal 1800, con una temperatura media di 2.09 °C superiore al dato relativo al periodo 1991-2020), nessuno ha immaginato di rinnovare l’ordinanza Cingolani, che per ridurre i consumi di gas in conseguenza del guerra in Ucraina, nell’autunno del 2022 aveva ritardato l’accensione dei riscaldamenti, obbligando le famiglie, le imprese e i servizi anche a contenere di un grado la temperatura massima per gli ambienti.

Il risultato misurato dall’Enea è stata una contrazione dei consumi medi di gas a livello nazionale del 18% rispetto agli ultimi cinque anni. Non era possibile replicare la misura? O, addirittura, metter mano alle “zone climatiche”, visto che il clima è cambiato ma accendiamo i termosifoni come trent’anni fa.