In molte città d’Italia ieri si sono svolte fiaccolate e flash-mob di solidarietà ai colleghi, ai parenti e agli amici della psichiatra pisana Barbara Capovani, uccisa all’uscita dal lavoro da un ex paziente. Migliaia di medici, infermieri e operatori sociosanitari hanno però voluto anche focalizzare un problema di sicurezza che riguarda tutto il mondo sanitario ma soprattutto quello della salute mentale. Una problematica che nessuno sottovaluta ma sulla cui soluzione si spacca il mondo della psichiatria e non solo. Ne abbiamo parlato con un “basagliano” doc come Pietro Pellegrini, direttore del Dipartimento di salute mentale di Parma, esperto dunque sia di Csm, i servizi territoriali, che di Spdc, le strutture di ricovero ospedaliere.

Dottor Pellegrini, in un’intervista apparsa ieri su questo giornale, Andrea Filippi, segretario nazionale Fp Cgil medici e dirigenti del Ssn, affermava che l’omicidio di Pisa «era prevedibilissimo».
Non sono d’accordo. Senza entrare nel particolare della vicenda, ma a Pisa si è avuta la dimostrazione della carenza di coordinamento tra welfare – salute mentale e sociale – magistratura, amministrazione comunale e forze dell’ordine, non ultime le strutture di sicurezza sui luoghi di lavoro. Si tratta di un omicidio avvenuto in un ospedale pubblico e in pieno giorno.

La legge 113 approvata nel 2020 sulla violenza sugli operatori sanitari prevede un piano per scongiurare i casi, viene applicata correttamente?
Noi dell’Azienda sanitaria di Parma stiamo facendolo, anche cercando di installare dispositivi di salvaguardia. Nel complesso in Italia c’è però un lavoro da fare sulla sicurezza. Essendo un tema complesso, l’insieme dei fattori che vanno presi in considerazione sono molteplici: c’è un problema di personale, legato alle risorse, uno di attrezzature e spazi lavorativi, c’è il problema dei servizi isolati e non custoditi, e quello della formazione…

Secondo Andrea Filippi, un altro problema è una certa cultura antipsichiatrica che ha descritto gli psichiatri come nemici dei pazienti, anziché loro alleati. Lei cosa ne pensa?
Sono d’accordo con Filippi quando dice che la figura del dipendente pubblico, e del medico prima ancora dello psichiatria, è stata svalutata molto, a partire dai diritti sindacali non riconosciuti fino al ruolo sociale. Sulla questione della psichiatria credo il tema sia complesso: c’è una psichiatria che deve farsi carico dei momenti difficili del paziente e c’è una psichiatria territoriale e residenziale che può prendere in considerazione non solo gli aspetti farmacologici e biologici ma anche gli aspetti psicologici, relazionali e sociali. Ora secondo me Filippi solleva il tema dell’antipsichiatria un po’ a sproposito, perché la visione strettamente antipsichiatrica di chi nega l’esistenza dei disturbi mentali non è diffusa in Italia. Diverso è il caso delle posizioni critiche che vedono nell’aspetto ambientale, culturale e psicologico degli elementi che possono concorrere al determinarsi dei disturbi.

Perché il caso di Pisa è diventato emblematico?
Dopo il caso di Pisa è entrato in ballo un tema tutto interno alla psichiatria, è questa la regressione: non riuscire a capire che le problematiche derivanti dal disturbo mentale nascono nella comunità ed è nella comunità che vanno risolte. Nel caso specifico, abbiamo visto all’opera un’aggressività apparentemente antipsichiatrica che in realtà non esiste né all’interno del mondo accademico né da parte di utenti e famiglie, che pur con qualche contestazione si rapportano quasi sempre con i servizi in modo molto collaborativo. La critica riguarda il fatto che ai servizi viene chiesto un intervento più completo e complesso della pura somministrazione di farmaci. Il problema dunque non è tanto che venga negata la malattia mentale o che si neghi o sottovaluti la pericolosità di certi malati, ma è invece legato alla difficoltà di far fronte a questi rischi in contesti aperti, come quelli comunitari. E questo implica il tema, che secondo me dovrebbe essere in primo piano, della forte collaborazione inter-istituzionale necessaria per realizzare la legge 180 ma anche la legge 81 (sicurezza sui luoghi di lavoro, ndr). Questo non è soltanto un problema psichiatrico.

A 45 anni dalla legge 180, tra pochi giorni, si può ancora parlare di contrapposizione tra una psichiatria di contenzione e una più illuminata dalla rivoluzione di Basaglia?
No, pur nella differenza di accenti che ci possono essere, la 180 è un patrimonio condiviso. Oggi si lavora tutti con quel bagaglio comune. Le linee di tendenza sono piuttosto consolidate ed è chiaro che nessuno psichiatra mette in atto come prima cosa la contenzione. Certo che se poi non ho spazi, personale o risorse, seguire le linee di tendenza trattamentale diventa sempre più difficile. Poi, nell’organizzazione dei servizi possono e devono esserci miglioramenti, verso la piena realizzazione della legge. Bisogna farsi carico anche di tutte le novità e dei cambiamenti sociali, per questo va aggiornata la visione d’insieme e anche l’organizzazione.

Anche la legge 180 va aggiornata?
Ci sono punti che vanno rivisti, a partire dal Trattamento sanitario obbligatorio. C’è chi vuole più garanzie e più diritti per gli utenti, visto che la legge 180 non prevede la presenza di uno psichiatra durante il Tso ma bastano due medici. E c’è chi invece vorrebbe poter prolungare il Tso e anche poterlo eseguire in strutture diverse dagli Spdc. Ma questa posizione, proposta tante volte in questi 45 anni, finora non ha trovato sufficiente riscontro, solo perplessità sia di carattere giuridico che clinico.

Una proposta di legge del deputato Riccardo Magi prevede di modificare il Codice Rocco eliminando la non impunibilità per vizio totale o parziale di mente. Le piace?
Il codice Rocco è del 1930 e non è in sintonia con la legge 180. Bisogna differenziare la parte del giudizio a cui va sottoposto il malato per quello che ha compiuto – e questa a mio parere è una questione di rispetto e civiltà – dall’esecuzione penale e dalla cura. Ed è qui che bisogna capire come completare la dismissione degli Opg. La legge è del 2015, quindi siamo ancora in una fase di assestamento.

Ma una volta giudicato come gli altri, si può davvero pensare che il “folle reo” sconti la pena in carcere come chiunque altro?
Secondo me negli istituti di pena devono rimanere solo le persone con disturbi mentali che sono risultate imputabili e quindi condannabili. Quelle vanno curate nelle articolazioni di tutela della salute mentale interne al carcere. In questo momento ci sono circa 6 mila persone con misure di sicurezza di libertà vigilata, pericolose socialmente, di cui circa il 60% è in strutture residenziali o nelle Rems (che contengono in tutto 700 posti), e il resto è seguito dai Csm. Il trattamento va valutato caso per caso. Bisogna migliorare l’assistenza sanitaria e di recupero sociale dentro e fuori le carceri, con anche forme innovative di gestione dei pazienti violenti. Io non dico di chiudere le strutture residenziali, e credo che dobbiamo anche pensare a delle innovazioni per la residenzialità. Abbiamo però un problema da risolvere: quello delle persone con disturbi psichici che non sono ancora stati dichiarati imputabili o non imputabili, e non sono stati ancora processati, ma scontano misure detentive provvisorie in carcere. E sono la maggioranza. Questa pratica dal mio punto di vista va abolita.

È una questione di dove porre l’accento, se sul controllo o sulla cura e la prevenzione. È così?
C’è una cosa che va detta con chiarezza: il sistema psichiatrico cura nella libertà, cercando di responsabilizzare le persone, non fa custodia. Se non nei casi estremi. Per quanto riguarda la sicurezza degli operatori, le Rems in questi anni hanno garantito un sistema di cura e anche di salvaguardia del personale. Devono evolversi, ma certo non possono essere pensati come dei luoghi dove le persone malate possono espiare vent’anni di pena. Perché non è nel mandato sanitario.