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La protesta: «Un solo dottore in corsia per cento pazienti»

La protesta: «Un solo dottore in corsia per cento pazienti»Infermieri a lavoro – Ansa

Sanità I racconti dalla trincea degli ospedali: «Ogni medico si occupa almeno di 3mila casi, 60 ore alla settimana. Così c’è il burn out»

Pubblicato circa 3 ore faEdizione del 20 novembre 2024

«La realtà è che siamo ostaggio dell’ospedale, in un clima di pressione sempre crescente e che chiede sempre di più, come in una catena di montaggio». A parlare è Mirko Schipilliti, medico di pronto soccorso a Padova e rappresentante sindacale Anaoo, una delle sigle oggi in sciopero. In un contesto come quello del pronto soccorso, già di per sé imprevedibile e complesso, la mancanza di risorse aggrava da tempo problemi strutturali che ricadono sulla qualità del servizio che il personale è in grado di offrire (e quindi i pazienti di ricevere) e sulla vita stessa di medici e infermieri.

«IL NOSTRO DISAGIO lavorativo è dato da due ordini di problemi principali: gli stipendi più bassi d’Europa nella nostra categoria e il sovraccarico cui siamo sottoposti» racconta. I numeri del sottodimensionamento dei reparti li ha ripetuti recentemente anche il ministro della Salute Orazio Schillaci: mancherebbero almeno 4mila medici. Uno studio di Simeu (Società italiana medicina d’urgenza) stima che ogni anno vengono effettuate almeno 4 milioni e mezzo di visite in più rispetto agli standard nazionali, il 22% del totale: un paziente su cinque viene trattato oltre quelle che sarebbero le possibilità dei medici. «Ogni medico si occupa almeno di 3mila casi l’anno, lavorando anche 50 o 60 ore alla settimana. In queste condizioni è impossibile non arrivare al burn out: almeno il 40% dei medici di pronto soccorso ne è a rischio, il doppio rispetto ad altri medici ospedalieri. Il risultato sono le dimissioni» prosegue Schipilliti. A Genova, il 18 novembre, alle 10 del mattino il pronto soccorso del Villa Scassi aveva un solo medico per gestire oltre 100 pazienti.

IL CONSEGUENTE CALO della qualità del servizio si ripercuote sul personale sanitario sotto forma di aggressioni. La questione è arrivata anche al governo, che se ne è occupato varando una legge approvata alla Camera in settimana. La smania repressiva della maggioranza si è riversata anche sulla sanità: introdotta una nuova fattispecie di reato, danneggiamento di beni destinati al servizio sanitario, con flagranza anche differita. A settembre il senatore Ignazio Zullo di Fratelli d’Italia ha anche presentato una proposta di legge per introdurre un Daspo sanitario: per chi commette violenze nei confronti di sanitari sarebbero sospese le cure gratuite per tre anni. Una misura senza coperture economiche, che «pensa di trasformare la repressione in prevenzione» spiega Schipilliti. Le risorse che servirebbero per migliorare la vita in corsia di medici e pazienti continuano a non esserci.

PREVENIRE significherebbe innanzitutto investire risorse per avere maggiore vigilanza, dice, ma soprattutto inserire nuovo personale. Il posto in pronto soccorso è molto poco appetibile per i nuovi laureati, e la scuola di specializzazione in medicina d’urgenza è stata aperta solo pochi anni fa. «Ai concorsi si presenta anche la metà delle persone rispetto ai posti banditi, per dare un’idea» dice una specializzanda, «fino a poco fa chi lavorava nei pronto soccorso erano internisti o clinici poi sposati. Ma anche ora vedo chirurghi o geriatri».

NON MANCANO solo i medici, di infermieri ne servirebbero circa diecimila. Carlo Torricella è sindacalista della Nursid e lavora al Pertini di Roma: «Capita di frequente che un infermiere gestisca anche quindici pazienti da solo. Le aggressioni arrivano così: è impossibile dare spiegazioni a tutti quando hai addosso i parenti di così tante persone». I turni massacranti, racconta, limitano la vita personale dei lavoratori, motivo per cui in sempre di più scelgono di passare alle assistenze domiciliari a partita Iva. Lo sciopero è un’arma spuntata, bloccata dai contingenti minimi: «Di fatto non abbiamo diritto di sciopero. Vogliamo protestare perché siamo pochi, ma non possiamo perché siamo pochi. Paradossale ma è così».

IMPANTANATA è poi la riforma della medicina territoriale: la riorganizzazione del sistema sanitario, partorita con la pandemia, che avrebbe la funzione di decongestionare gli ospedali tramite l’apertura delle case di comunità. Dovevano essere oltre 1.300 in tutto il paese e garantire una costante presenza di un’equipe multidisciplinare, compresi i medici di medicina generale. Prima sono state falcidiate, ridotte a meno di mille, con il sottosegretario alla salute Alberto Gemmato che ha preferito spostare fondi su un’altra rete di infrastrutture: le farmacie. Un mondo a lui vicino essendo la famiglia nel settore. L’investimento Pnrr nelle case di comunità è stato fatto comunque senza tutte le coperture necessarie dal momento che prevede denaro sufficiente solo alle strutture fisiche (molte delle quali rimangono ancora un mistero) e non per il personale.

FONDI TAGLIATI e strutture chiuse. Così sono sorti, negli ultimi anni, presidi volontari aperti da realtà mutualistiche per sopperire alle carenze del pubblico e riaccendere i riflettori sulla situazione della sanità. A Roma, al Quarticciolo, quartiere popolare della periferia est, l’ambulatorio popolare messo in piedi dal comitato di quartiere, ha da anni avviato le proprie attività che comprendono tra gli altri medici di medicina generale, psicologi, nutrizionisti. A Rebibbia, sempre nella capitale, lo sportello sanitario gestito dai volontari aiuta le persone a districarsi nelle liste di attesa, avvalendosi di una legge del 2005 che permette di accedere alle prestazioni in intramoenia quando i tempi sono oltre quelli previsti dalla normativa.

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