Scuola europea di Varese, precariato e sopraffazione in salsa multilingue
Scuola Nell’istituto per i figli dei dipendenti della commissione 1.250 docenti senza diritti
Scuola Nell’istituto per i figli dei dipendenti della commissione 1.250 docenti senza diritti
«Scuole europee», uso del precariato italiano. In due dei tre istituti riconosciuti dalla Ue e presenti nel nostro paese, ci sono insegnanti di serie A e insegnanti di serie B. A parità di lavoro, i primi sono inquadrati con contratti europei parametrati sugli stipendi lussemburghesi; i secondi, invece, fanno parte del multiforme bacino del precariato scolastico italiano e come tale vengono trattati.
Lo scopo di queste scuole, che in Italia si trovano a Varese, Parma e Brindisi, è quello di fornire un’istruzione multilingue ai figli dei dipendenti delle istituzioni europee. Per loro la frequenza è gratuita ma l’iscrizione è consentita anche ad altri, pagando una tasse d’iscrizione di solito molto alta. Per il reclutamento dei docenti queste scuole possono fare affidamento su un doppio regime.
«Da un lato ci sono i cosiddetti distaccati, cioè i nominati di ruolo dai ministeri dei paesi membri tramite concorso, in qualità di docenti titolari; dall’altro i docenti assunti localmente (Lrt) per completare gli organici di fatto, retribuiti dalla Commissione europea», spiega Gian Marco Martignoni della Cgil. Complessivamente gli Lrt, e cioè i precari, su scala europea, sono 1.250, mentre l’organico totale è stimato intorno alle tremila persone. Il rapporto tra titolari e locali è regolato dalla Commissione che, in linea teorica, prevede una distribuzione del 65% dei primi contro 35% dei secondi.
Tuttavia diverse sono state negli anni le deroghe, tanto che era consuetudine utilizzare anche il 50% di precari. Nel 2019 però la Commissione Europea ha chiesto alla scuola di Varese (la prima nata in Italia già nel 1960 per i figli dei dipendenti del centro di ricerca Ispra) di tornare alla proporzione iniziale. Questa operazione, che naturalmente comportava la perdita del lavoro per alcuni insegnanti, si sarebbe potuta risolvere con una normale dialettica sindacale. Ma la scuola europea di Varese non li ha, non li vuole e licenzia chi tenta di dare una rappresentanza ai lavoratori.
È quanto dimostra la vicenda del professore Paolo Paliaga che, 4 anni fa, era riuscito a farsi eleggere delegato Flc Cgil, sindacalizzando una cinquantina di colleghi, e ad avviare una trattativa con la dirigenza della Scuola Europea di Varese. Ma l’accordo non è stato mai trovato e Paliaga, che insegnava lì da 23 anni, è stato licenziato a maggio 2022. «Una porcheria così grande non l’ho mai vista in vita mia», dice oggi il docente, a quanto pare colpevole per aver organizzato la prima riunione sindacale in orario scolastico in 50 anni di esistenza dell’istituto. «Come Flc volevamo aprire un dialogo sociale – racconta Paliaga – non ci stavamo opponendo alla rimodulazione ma chiedevamo di fare questa operazione con criterio, di stabilire dei tempi per la fuoriuscita dei precari ma la scuola ci ha risposto con un blocco totale».
Nemmeno la petizione organizzata dai genitori degli studenti, più di mille firme raccolte in pochi giorni, per chiedere un tavolo per tutelare il piano didattico è stata tenuta in considerazione. In compenso sono arrivate le ritorsioni. «Non mi sentivo in pericolo per la mia anzianità e per la qualità dei miei corsi, invece sono stato accompagnato alla porta», dice ancora Paliaga che si domanda: «Può un istituto di formazione nel cuore dell’Unione Europea comportarsi come una qualsiasi multinazionale pirata?». Il docente ha impugnato il licenziamento ma qui l’altra sorpresa: il Tribunale di Varese si è pronunciato come «non competente».
Nel 2016, infatti, le Scuole europee, dopo aver perso diverse cause intentate da docenti in diverse scuole, hanno deciso di cambiare lo statuto sottraendo al sistema giudiziario dei paesi membri la competenza a dirimere le controversie per attribuirla alla sola »Camera dei ricorsi». Con un bizzarro conflitto di interesse perché, come sottolinea Paolo Paliaga che ora si vede costretto a ricorrere alla Corte d’Appello di Milano, «i giudici di questa corte sono eletti dal consiglio superiore delle scuole europee». «Spero che in appello venga stabilito che non ci può essere una sospensione del diritto alla rappresentanza sindacale. La mia non è una battaglia personale ma riguarda almeno 1.250 altri docenti che lavorano nelle scuole europee in totale precarietà perché c’è un sostanziale vuoto legislativo che riguarda questa categoria di insegnanti».
Un vuoto che evidentemente conviene anche ad altre scuole simili, come la Scuola D’Europa di Parma, “accreditata” al Parlamento Europeo e non gestita direttamente dall’Ufficio del Segretario Generale delle Scuole Europee, come nel caso di Varese.
Secondo alcuni docenti, che vogliono rimanere anonimi per paura di ritorsioni, qui la dirigenza «usa a convenienza la legislazione italiana o europea, basta che vada a svantaggio dei lavoratori». Anche in questo istituto il sindacato non è mai riuscito a entrare e solo due anni fa è stato nominato un rappresentante dei lavoratori.
Anche a Parma esiste una differenza retributiva importante tra docenti di ruolo e precari locali che hanno gli stipendi parametrati su quelli delle scuole materne, anche se insegnano alle superiori. «Abbiamo solo doveri e pochissimi diritti – spiegano i precari – ci vengono chieste le stesse prestazioni dei docenti di ruolo ma percepiamo lo stipendio per 10 mesi, non possiamo partecipare a programmi di mobilità tipo l’Erasmus o alla formazione indetta dal sistema delle scuole europee i part time sono in molti casi finti».
Inoltre, caso pressoché unico nel panorama scolastico italiano, i docenti precari sono obbligati a ripetere una specie di concorso ogni tre anni per entrare nella graduatoria dei papabili ad avere il posto che di solito hanno già. E i criteri per stabilire le mansioni dei docenti a tempo non sono mai fissi: «a seconda della volontà del dirigente viene applicata la legge che regola l’istituto (il decreto 138) o il contratto dei lavoratori della scuola ma il lavoratore non può sapere a priori quale sarà utilizzata.
Di certo però sa che l’applicazione dell’una o dell’altra è a suo sfavore», dicono gli insegnanti di Parma che condannano «l’ambiente molto lontano dall’equilibrio europeo su cui queste scuole dovrebbero orientarsi e dagli standard che l’Europa chiede alle scuole pubbliche».
Sono diversi i docenti dell’istituto parmense che in questi anni, in gruppo, hanno fatto ricorso e fino a ora il tribunale ha sempre dato loro ragione. «Ma ci vogliono in media 7 anni per avere un pronunciamento, può essere un percorso umiliante, noi ci chiediamo se sia possibile avere nelle scuole italiane delle enclave dove il sindacato non può entrare».
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