Draghi era già deciso a procedere come un carro armato. Il carico aggiunto dalla Ue per bocca del commissario Gentiloni può solo averlo rafforzato nella sua determinazione. Oggi si riunisce la conferenza dei capigruppo del Senato e non era mai successo che una camera dovesse decidere messa pubblicamente con le spalle al muro dal governo, con tanto di lettera del premier alla presidente Casellati. Si può facilmente immaginare quanto poco la seconda cittadina dello Stato abbia gradito il sentirsi dettare ordini e agenda dal capo del governo. Il quale governo chiederà oggi di calendarizzare il ddl Concorrenza in aula per licenziarlo entro pochissimi giorni. L’intesa sulle concessioni balneari ancora non c’è: se non la si troverà in tempo il governo metterà la fiducia sul testo base, cancellando così di colpo tutte le modifiche sin qui concordate: una decina di punti tutti importanti.

SULLA DETERMINAZIONE di Draghi non c’è alcun dubbio. Ieri ha incontrato i rappresentanti del gruppo della Camera di Coraggio Italia e di Italia al Centro al Senato: i convenuti lo hanno trovato tanto calmo in superficie quanto irritato nella sostanza, laconico nel confermare che il provvedimento sulla Concorrenza deve essere varato. Quindi o la destra accetta un accordo oppure dovrà ingoiare il testo base. Non è precisamente il ruolo che spetterebbe alle Camere in una Repubblica parlamentare, si avvicina casomai al suo opposto. Ma Draghi non può muoversi diversamente, non con il fiato della commissione sul collo. Ieri i commissari Dombroviskis e Gentiloni hanno presentato le annuali «raccomandazioni» della commissione e hanno confermato la prevista proroga della sospensione del Patto di Stabilità per tutto il 2023.

SIN QUI TUTTO BENE e sospiri di sollievo a Roma. Ma il prosieguo è meno confortante. «Non è un liberi tutti», specifica Dombrosvkis il duro. «Niente spesa illimitata e soprattutto per i Paesi ad alto debito il Next Generation Eu, con l’applicazione dei piani nazionali, è il centro delle nostre raccomandazioni», aggiunge Gentiloni senza usare termini sgradevoli come «strumento di controllo». Non ce n’è bisogno, il concetto è già chiarissimo di per sé. Con la Germania che si sta spostando di nuovo sulla linea del rigore, la richiesta di rispetto dei tempi sarà fiscale e il controllo sugli obiettivi di volta in volta realizzati rigido.

GENTILONI SI È ALLARGATO anche su un capitolo che non rientra nella lista del Pnrr e che provoca tensioni ben più alte degli stabilimenti balneari nella maggioranza. Il commissario all’Economia parla apertamente di «fonte di reddito sottoutilizzata». Segnala che «il gettito dell’imposta sul valore aggiunto è relativamente basso» e che la base imponibile sulle prime case «è obsoleta». Parole che hanno innescato sirene d’allarme a distesa nei partiti della destra perché suonano non solo come sostegno alla contestata riforma del catasto ma anche come prologo a una modifica della tassazione. Gentiloni nega: «La commissione non ha intenzione di massacrare di tasse nessuno. Non credo che aggiornare i valori catastali agli attuali valori di mercato rappresenti una richiesta di aumentare le tasse ma una necessità per l’Italia». La formula non tranquillizza la destra, piuttosto la inferocisce ulteriormente. «Così conferma di volere l’aumento delle tasse», sentenzia Meloni mentre Salvini ricorre al dialetto milanese: «Taches al tram: si attacchino al tram. Non ci pensiamo nemmeno».

LETTA S’IMBUFALISCE, risponde rivolgendosi direttamente al leghista: «Hai passato il segno. Così il governo è a rischio». Salvini rilancia: «Il Pd sta su Marte. Pensa alla legge elettorale e alla legge Zan». Insomma, schermaglie da campagna elettorale, se non fosse che sullo sfondo campeggiano quelle «raccomandazioni» della commissione il cui senso è preciso: chiedono di tagliare la spesa e accelerare sulla riduzione di debito e deficit. Dicono che l’Italia è tornata a essere il «sorvegliato speciale» d’Europa. A palazzo Chigi la preoccupazione è tanto più alta in quanto i progetti del Pnrr stanno procedendo a rilento, ostacolati dall’eterna difficoltà italiana nello spendere i fondi, dall’imprevisto ed enorme guaio della guerra in Ucraina, dalle divisioni e resistenze della maggioranza in Parlamento. Nasce da questa percezione di una difficoltà reale e di un rischio enorme la decisione di Draghi di provare sì a mediare ma senza permettere che ciò implichi il rallentamento o peggio la paralisi. Costi quel che costi.