Scontri a Tel Aviv, Netanyahu minaccia espulsioni. Gli eritrei si nascondono
Israele Dopo le violenze di sabato a Tel Aviv, il governo di estrema destra pensa a provvedimenti eccezionali contro migranti e richiedenti asilo africani
Israele Dopo le violenze di sabato a Tel Aviv, il governo di estrema destra pensa a provvedimenti eccezionali contro migranti e richiedenti asilo africani
«Non scattare foto, non vogliamo giornalisti qui». Non siamo fortunati, ci chiedono di allontanarci i due eritrei seduti accanto all’ingresso di uno dei pochi negozi aperti in via Lewinsky. Di solito quest’area a sud di Tel Aviv e il rione Neve Shaanan sono popolati di migranti e richiedenti asilo eritrei e sudanesi. Da sabato sera invece c’è poca gente in giro, gli africani sono spariti. Ha svuotato le strade l’intenzione annunciata dal premier Netanyahu e il suo governo di estrema destra di espellere gli «infiltrati eritrei» – così li chiamano in Israele – protagonisti tre giorni fa di gravi violenze prima fra le «magliette azzurre» e le «magliette rosse», ossia tra sostenitori e oppositori del presidente-dittatore Isaias Afwerki, e poi di scontri con la polizia. I feriti sono stati 160, alcuni dei quali colpiti da proiettili. Una cinquantina gli arrestati.
Non ha paura Filimon, 35 anni, entrato in Israele dalla frontiera con l’Egitto nel 2007, ancora privo di un permesso permanente come gli altri eritrei ma che ha un lavoro stabile. «Nascondersi non serve a nulla, se vogliono ci prendono tutti», ci dice. Secondo Filimon l’inferno che si è scatenato sabato scorso «poteva essere evitato». Le autorità israeliane, dice, «dovevano impedire l’evento organizzato dall’ambasciata con le ‘magliette rosse’. Sono spie quelli, sono qui per ricattarci. Ci chiedono soldi. Se non paghiamo se la prendono con le nostre famiglie in patria».
Gli eritrei costituiscono la maggioranza dei circa 30.000 richiedenti asilo africani in Israele. Sono circa 18mila, fuggiti per la coscrizione militare forzata che nel loro paese può durare anche 40 anni, oltre che per la brutalità del sistema repressivo messo in piedi da Afwerki, al potere dal 1993. Ma nei quartieri meridionali di Tel Aviv, dove gli israeliani poveri vivono a stretto contatto con gli africani, gli abitanti non provano solidarietà per i richiedenti asilo. Chiede di deportarli persino Moni che pure impiega nel suo negozio di frutta, a nero con ogni probabilità, un migrante sudanese. «Che vadano via, subito» ci dice «quanto è accaduto sabato conferma la loro pericolosità, sono violenti. Bibi (Netanyahu) dovrebbe cacciarli via tutti». E il primo ministro in passato ha provato a deportarli tutti gli africani. «Non sono rifugiati. La maggior parte di loro cerca solo un lavoro», proclamò nel 2017.
Eritrei e sudanesi in Israele erano 60mila fino a qualche anno fa. Tanti di loro sono stati detenuti a Saharonim e poi a Holot (deserto del Negev), quindi espulsi – le partenze «volontarie» sono state incentivate con 3500 dollari – verso paesi africani non meglio precisati (si è parlato di Rwanda e Uganda) disposti ad accoglierli. Una pratica condannata dai centri per i diritti umani che ricordano come Israele abbia riconosciuto a pochissimi africani lo status di rifugiato politico. Netanyahu vuole cacciare via al più presto i sostenitori di Afwerki perché a casa non rischierebbero le rappresaglie del regime. E una soluzione praticabile per espellere i veri richiedenti asilo.
Non ha scrupoli il ministro della Sicurezza, Itamar Ben Gvir, che, stando ai giornali, vuole abolire la Legge fondamentale a tutela della dignità e libertà umana in modo da deportare gli eritrei senza tener conto delle sentenze dei giudici. Per la destra estrema al governo, i fatti di sabato scorso offrono un’opportunità per portare altri attacchi alla Corte Suprema, già bersaglio della riforma giudiziaria in corso. Ben Gvir e il suo collega Bezalel Smotrich, di fatto sostengono che i massimi giudici hanno aiutato a portare la criminalità nei quartieri dove si sono stabiliti gli «infiltrati». «Israele non può ignorare il diritto internazionale» spiega l’attivista Sigal Avivi «non può mandare forzatamente una persona in un paese dove la sua vita e la sua libertà potrebbero essere a rischio».
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