Realizzare uno studio scientifico richiede tempo e fatica: bisogna approfondire le conoscenze, condurre il lavoro di laboratorio, redigere un resoconto accurato e inviarlo alle riviste scientifiche, che possono richiedere revisioni e nuovi esperimenti. Eppure, a giudicare dalle ricerche pubblicate diversi scienziati sono in grado di sfornare uno studio ogni pochi giorni, ferie e weekend inclusi. Lo statistico statunitense John Ioannidis della Stanford University (Usa) si dedica da tempo a capire chi e come riesca nell’impresa. A questo scopo ha passato in rassegna le decine di milioni di articoli scientifici pubblicati nell’ultimo ventennio e alla fine di novembre, con i colleghi Thomas Collins e Jeroen Baas ha pubblicato sul sito BiorXiv i risultati dell’indagine. Ioannidis e colleghi hanno escluso dall’analisi il campo della fisica, perché gli esperimenti della Big Science a cui collaborano migliaia di ricercatori fanno storia a sé quanto a pubblicazioni. Per le restanti discipline, i tre ricercatori hanno individuato oltre tremila studiosi definiti «estremamente prolifici», capaci cioè di firmare uno studio scientifico ogni sei giorni in media.

Il fenomeno è preoccupante perché realizzare una ricerca in un tempo così breve è materialmente impossibile, in un normale laboratorio in cui lavora al massimo qualche decina di ricercatori. Ci può riuscire solo chi bara. Cioè, chi inventa i dati, copia le ricerche altrui o firma studi a cui non ha contribuito. Di solito si ricorre a queste scorciatoie per rimpolpare il curriculum e acquisire prestigio scientifico, cattedre, finanziamenti perché il numero delle pubblicazioni è considerato a torto una misura della bravura di un ricercatore. Analizzare quelli ultraproduttivi serve dunque a stimare indirettamente il volume delle truffe scientifiche, un fenomeno in netta crescita: tra il 2016 e il 2022, rivela Ioannidis, il numero dei superscienziati da oltre settanta pubblicazioni all’anno è più che triplicato.

Preoccupa constatare che l’Italia è ai primissimi posti al mondo: da noi il numero di scienziati estremamente prolifici è aumentato di ben sette volte negli ultimi sei anni. Solo Tailandia, Arabia Saudita, Spagna e India hanno fatto meglio (cioè peggio) di noi.

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Schillaci e la ricerca, un anno da leoni
Non è un buon segno ma nemmeno una sorpresa assoluta, perché da noi i ricercatori iper-produttivi sono nomi noti e celebrati. Si pensi al ministro della salute e radiologo Orazio Schillaci: nonostante nel 2023 abbia guidato un ministero così rilevante in un periodo delicato, nei ritagli di tempo è riuscito comunque a pubblicare oltre trenta studi scientifici (circa uno ogni dieci giorni) con una produttività mai raggiunta nemmeno quando si dedicava alla ricerca a tempo pieno. Ha fatto anche meglio di lui un altro medico-rettore, Salvatore Cuzzocrea. Nel 2023, anno in cui ha assunto la presidenza dei rettori delle università italiane, di studi scientifici ne ha firmati addirittura uno a settimana. A conferma dei sospetti di Ioannidis, le inchieste di questo giornale hanno evidenziato che sulla correttezza degli studi firmati da Schillaci e Cuzzocrea è lecito avere molti dubbi.

I casi italiani però dimostrano che se un curriculum gonfiato è utile per fare carriera, il rapporto si può invertire e l’iperattività scientifica a volte è la conseguenza, e non la causa, dell’accesso ai posti di vertice. Dal punto di vista scientifico è un fenomeno ancora più dannoso. Chi ricorre a mezzi illeciti per scalare la piramide del potere può imbattersi in rivali disposti a sbugiardarlo. Ma se bara chi è già salito in cima, difficilmente si troverà qualcuno disposto a fargli le pulci rischiando in proprio. E così la cattiva scienza mette le sue radici più profonde.