Sono appoggiati su una panchina a Kaplan Street, di fronte al presidio permanente delle famiglie degli ostaggi: cartelli con su scritto «All for all today». «Prisoner deal for Israel’s survival», lo slogan con il pennarello rosso lasciato sopra un altro cartoncino.

Questo pezzo di strada nel cuore di Tel Aviv, a pochi passi dal quartier generale dell’esercito, i familiari delle persone rapite da Hamas nel sud di Israele il 7 ottobre non lo mollano. Hanno montato una tenda, sedie di plastica, cartoni d’acqua. Una signora si presenta con una torta al cioccolato.

Su un albero hanno appeso cordoncini gialli («Come le stelle della Shoah») e farfalle di origami con i nomi di alcuni ostaggi. I loro volti sono ovunque. Tappezzano i muri, le fermate dell’autobus, le centraline elettriche, i cartelli stradali. Volti, nomi, età e hashtag: #Bringthemhome, #HamasisIsis.

I PALI dei semafori sono ricoperti di adesivi: la faccia di Benyamin Netanyahu con sopra l’impronta di una mano sporca di sangue, la sua faccia con la parola «Dimettiti». Qualcuno ha provato a cancellarla con la vernice nera, «sostenitori del primo ministro», dicono.

In mezzo agli adesivi, spunta anche qualche cocomero, «Decolonize Palestine»: è il frutto che porta con sé i colori della bandiera palestinese, ormai da anni forma di protesta poco camuffata.

Kaplan Street sembra aver chiara la strategia per riportare a casa i 240 ostaggi – militari e civili, tanti anziani e bambini – in mano ad Hamas: lo scambio di prigionieri. «Mi chiamo Leone e sono qui per Noa Argamani».

È la giovane ritratta nel video che ha fatto il giro del mondo: la caricano su una moto mentre grida verso il fidanzato Avinatan. «Mi prendo cura di sua madre, è in ospedale – ci dice Leone – Veniamo spesso, alle 17.30 preghiamo insieme per dire che non dimentichiamo nessuno».

Leone parla di scambio, i detenuti politici palestinesi per gli ostaggi: «Non ho paura di vederli liberi. Li rimandiamo a Gaza, poi sappiamo cosa fare». Poco più avanti Ruth tiene in mano il cartello con il volto della zia, Ofelia Roitman, 77 anni, rapita nel kibbutz di Nir Oz: «È arrivata dall’Argentina nel ’95. Hanno distrutto la casa e lo studio di mio zio, è un pittore. Ce lo hanno confermato solo sabato scorso che era tra i rapiti».

A NIR OZ, 400 abitanti, non c’è stata battaglia. Le guardie del kibbutz hanno provato a fermare i miliziani di Hamas, ne hanno ucciso uno. La polizia israeliana è arrivata ore dopo. «Chiediamo uno scambio con i palestinesi: deal now», dice Ruth. «Sono 6mila contro 240, li vogliamo tutti, soldati e civili – aggiunge l’amica Dean – Diamoglieli indietro, poi penseremo a Gaza».

Noa è accanto alle due ragazze, interviene: «Possono mandarli in un paese terzo, i prigionieri palestinesi. Non tutti loro hanno le mani sporche di sangue, molti sono in carcere per altri motivi». L’impressione è di una volontà ormai consapevole, maturata nelle settimane di angoscia e di abbandono: un negoziato. Poi si vedrà. Gaza scompare.

Nella via parallela a Kaplan Street, altro presidio, altro tenore. Di fronte al Museo d’Arte sono accampate delle famiglie. Qui i cartelli sono diversi: «C’è scritto full blockade, assedio totale». Boaz è qui per suo fratello Omri, ci traduce il messaggio in ebraico stampato sopra i volti di alcuni bambini rapiti: «E c’è scritto “Nessuna assistenza umanitaria fino al rilascio”. Come possiamo mandargli camion di aiuti, cibo e medicine se non negoziano?».

Il presidio di fronte al Museo: “Assedio totale” (foto di Chiara Cruciati)

La soluzione è affamare Gaza, «solo così si ribelleranno ad Hamas», interviene un parente di Boaz. «Al governo chiediamo assedio totale, pressione sulla popolazione, bombardamenti a tappeto. Devono bombardare più possibile, fare pressione militare e umanitaria. Hamas si indebolirà e sarà costretto a negoziare sul serio».

«IO DICO: vuoi l’acqua? Ridammi mio fratello». Boaz è lapidario. Si è spostato dal nord, dove vive, ed è qui tutti i giorni con il resto della sua famiglia. In comune, con il presidio di Kaplan, hanno un desiderio: la testa del premier Netanyahu. «Li ha dati lui i nostri figli ad Hamas», dice Boaz. «Deve dimettersi, è il solo responsabile», dice Noa. «Non mi piaceva prima, ora mi piace ancora di meno», dice Dean.

Dopo tre settimane la stanchezza è tangibile, ma anche la messa a fuoco di quello che le famiglie vedono come la loro personale strategia. È come se il fronte si separasse, pur chiedendo la stessa cosa.

C’è anche una terza via, quella che sabato scorso è apparsa per la prima volta a Tel Aviv in un presidio improvvisato e – per la polizia – illegale: attivisti israeliani hanno chiesto il cessate il fuoco, punto e basta. Basta bombe su Gaza perché «il lutto non ha confine». È la terza via, la soluzione politica.

EMERGE nelle parole di Lior Peri. Hamas ha ucciso suo fratello Dani e ha rapito il padre Chaim. Dani era cittadino britannico, aveva 34 anni ed era venuto in vacanza a Nir Oz. Avrebbero dovuto vedersi quel sabato. Il padre 79enne è stato rapito, la madre no.

Chaim è rimasto lucido: quando i miliziani hanno tentato di entrare in casa, l’ha fatta nascondere ed è uscito a mani alzate. Hanno preso lui, non hanno visto lei. Che è ancora vivo Lion l’ha saputo dalle due donne liberate il 23 ottobre, Yocheved Lifshitz e Nurit Cooper: Chaim sta bene, non è ferito.

«Preferiamo una soluzione politica, sul lungo termine, non militare. Lo hanno fatto tante volte in passato e non ha funzionato – ci dice Lion – Non puoi dire che vai in guerra per vendetta, la vendetta non è un obiettivo. Il primo ministro dice che Hamas assaggerà la nostra rabbia. Non puoi dire che questo è lo scopo di un’operazione. A noi familiari, nei meeting senza giornalisti, il ministro della difesa dice che dobbiamo vincere la guerra, che dobbiamo spezzare Hamas. È così frustrante».

La priorità, insiste Lion, è liberare gli ostaggi: «Mio padre non vorrebbe che inviassimo soldati per rilasciarlo. Ne sono morti già undici. Reagire con la guerra è arrogante, è la prova che il governo non sa cosa fare. Ce lo ha dimostrato di non sapere cosa fare, di non sapere niente di Hamas».

UN FRONTE unico, tanti rivoli. E un grande assente, dal discorso e dalle foto appiccicate sui muri di Tel Aviv: gli ostaggi più deboli, quelli che dimenticati lo erano già.

«Non sono stati rapiti solo i kibbutzim, ma anche ebrei mizrahi, lavoratori thailandesi e nepalesi sfruttati – conclude lo storico Gadi Algazi – Persone della classe basse, anziani, beduini, tutte persone che erano state già dimenticate dallo Stato. Il massacro è terribile anche in termini di composizione sociale: la classe e l’etnia fanno la differenza anche quando si subisce una violenza».