Saša Filipenko, una voce di libertà da Minsk a Kiev
L'intervista Parla l’autore di «Croci rosse» (e/o) che fa luce su di un crimine dimenticato. Stalin rifiutò l’aiuto della Croce Rossa ai prigionieri di guerra sovietici, considerati potenziali traditori. «In Bielorussia nessuno può parlare apertamente di quanto sta accadendo. Però a Mosca dove la repressione è meno crudele mi aspettavo che protestassero più persone». «Putin ha chiuso la ong "Memorial" che lottava per i diritti umani e per ricordare la repressione che regnava in Urss. E ha scatenato una guerra contro chi in Ucraina vuole liberarsi definitivamente di quel passato»
L'intervista Parla l’autore di «Croci rosse» (e/o) che fa luce su di un crimine dimenticato. Stalin rifiutò l’aiuto della Croce Rossa ai prigionieri di guerra sovietici, considerati potenziali traditori. «In Bielorussia nessuno può parlare apertamente di quanto sta accadendo. Però a Mosca dove la repressione è meno crudele mi aspettavo che protestassero più persone». «Putin ha chiuso la ong "Memorial" che lottava per i diritti umani e per ricordare la repressione che regnava in Urss. E ha scatenato una guerra contro chi in Ucraina vuole liberarsi definitivamente di quel passato»
«Avrei da raccontarle una storia assurda. Non è neanche una storia, anzi. La definirei una biografia della paura, piuttosto. Di come la paura può sopraffare un essere umano e cambiargli la vita». Quando il protagonista di Croci rosse (e/o, pp. 160, euro 16, traduzione di Claudia Zonghetti) incontra per la prima volta la sua nuova vicina di casa Tat’jana Alekseevna, non sa ancora che ciò che l’anziana donna gli confiderà è destinato a cambiare per sempre anche la sua vita. Lavorando al Commissariato del popolo agli Esteri durante la Seconda Guerra Mondiale, Tat’jana aveva infatti appreso un segreto che Mosca voleva celare ad ogni costo: la spietata decisione del governo sovietico di rifiutare l’aiuto offerto dalla Croce Rossa nei confronti dei prigionieri di guerra sovietici, che Stalin considerava come potenziali traditori. L’aver cercato di impedire che quei prigionieri fossero abbandonati a loro stessi sarebbe costato alla donna una vita intera di persecuzioni e minacce.
È attingendo ai materiali conservati presso l’archivio della Croce Rossa a Ginevra, che lo scrittore bielorusso Saša Filipenko, 38 anni di Minsk, già collaboratore del Primo canale della tv russa, una delle voci più significative della nuova letteratura russofona e impegnato in prima persona nei movimenti per la democrazia e la libertà che si oppongono al regime di Lukashenko, ha ricostruito non solo una tragica vicenda dimenticata, ma un romanzo potente in grado di sfidare le retoriche nazionaliste oggi evocate ancora una volta a Mosca per giustificare una guerra.
Si trova ancora a Minsk e come sta vivendo quanto accade in Ucraina?
Sono stato costretto a lasciare la Bielorussia già lo scorso anno perché ero stato avvertito di un mio imminente arresto. Nel frattempo la stampa ufficiale del mio Paese non ha smesso di denigrarmi, venivano citati anche degli articoli del codice penale in base ai quali rischierei fino a dodici anni di carcere. Intanto il Pen Center ha preso posizione riconoscendo come io sia vittima della censura in Bielorussia. Perciò la mia casa editrice di Zurigo, Diogenes Verlag, e la mia agente, Galina Dursthoff, mi hanno aiutato ad ottenere delle residenze letterarie prima con la Fondation Jan Michalski e poi con l’Atelier Mondial Basel, sempre in Svizzera. Guardo con orrore a ciò che sta accadendo in Ucraina e voglio fare tutto il possibile per fermare la guerra: molte persone definiscono ancora tutto ciò come una «crisi», quanto quella che è in corso è in realtà una guerra su vasta scala.
Come definirebbe il modo in cui è raccontata la guerra ai bielorussi e quale spazio c’è ora per le voci indipendenti a Minsk?
Purtroppo non c’è modo di spargere la voce all’interno della Bielorussia. Puoi farlo su Facebook o altri social media che però sono vietati. Nel Paese le informazioni circolano come in epoca sovietica, con il passaparola. Ma in Bielorussia nessuno ha l’opportunità di parlare apertamente di quanto sta accadendo.
L’invasione dell’Ucraina si sta realizzando anche a partire dalla Bielorussia, e proprio a Minsk all’inizio della guerra si è protestato con lo slogan: «Non vogliamo essere complici»: oggi c’è modo di sapere cosa pensano i bielorussi? E come valuta le proteste che hanno luogo in Russia?
Purtroppo posso solo guardare alle proteste in Russia. E devo dire che alla luce del fatto che la macchina repressiva di quel Paese non è altrettanto violenta e crudele di quella bielorussa, e la polizia può perfino apparire pacifica se paragonata a quella di Minsk, registro con tristezza e delusione come a Mosca, una città di venti milioni di abitanti, non si siano viste masse di persone manifestare contro la guerra. Ai membri della società russa sembra non importare abbastanza che il loro Paese stia conducendo una guerra. Nel 2010 in Bielorussia, pur se consapevoli dei rischi e di appartenere ad una esigua minoranza, abbiamo trovato comunque la forza di protestare.
Nel suo Paese negli ultimi due anni è cresciuto un vasto movimento in difesa della libertà che ha contestato il regime di Lukashenko ma che ha dovuto subire una repressione feroce con migliaia di arresti, stupri, torture e processi agli oppositori che durano ancora. Come è la situazione ora, la guerra in cui è coinvolta anche Minsk può produrre una ripresa della lotta per la democrazia?
È difficile dire per quanto tempo Lukashenko rimarrà al potere. Ma dipende da noi quanto durerà questa agonia, che potrebbe continuare ancora per anni. Avremo successo in base alla nostra tenacia, come bielorussi, e alla fermezza della società europea nei confronti delle brutalità che continuano ad accadere nel mio Paese. Dobbiamo fare tutto ciò che è in nostro potere per accelerare la caduta di Lukashenko, così che la catastrofe umanitaria che è in corso in Bielorussia possa avere fine. Il movimento per la democrazia è vivo. I bielorussi continuano a protestare: cerchiamo solo di farlo nei diversi modi che abbiamo a disposizione. Per due anni abbiamo chiesto aiuto all’Europa, che ci osservava lottare per le nostre vite. Abbiamo cercato di spiegare quanto sia difficile farlo allo stesso tempo contro due tiranni: Lukashenko e Putin. E l’Europa ha espresso seria preoccupazione, niente di più. Abbiamo anche detto che Putin avrebbe attaccato l’Ucraina e Lukashenko lo avrebbe aiutato a farlo, ma nessuno ci ha ascoltato. È difficile lottare in queste condizioni, ma la nostra resistenza non è morta, e resta forte.
Lo scorso anno, in occasione della visita in Russia del presidente del Comitato Internazionale della Croce Rossa, Peter Maurer, lei ha lanciato un appello perché questa organizzazione intervenisse per fermare l’uso della tortura in Bielorussia. Ritiene che l’opposizione del suo Paese non abbia goduto di un sufficiente appoggio internazionale?
Maurer ha dichiarato che non voleva discutere con uno scrittore, le cui opere peraltro apprezza. Ha affermato che la mia petizione affinché la Croce Rossa visitasse le carceri bielorusse era puramente illusoria, poiché l’organizzazione non ha un mandato specifico, aggiungendo come la Croce Rossa può aiutare i prigionieri solo in caso di guerra. Una prova dell’incapacità dell’organizzazione ad adattarsi alle sfide odierne. La Croce Rossa bielorussa non è d’aiuto quando gli viene chiesto di visitare le carceri, mentre è abbastanza utile quando i suoi membri sovraintendono a delle elezioni fraudolente, come quelle che si sono svolte lo scorso agosto nel mio Paese e durante le quali si sono registrati centinaia di casi di frode. Per questo avremmo bisogno di una reazione da parte della Croce Rossa Internazionale: sono consapevoli di tutto ciò, pensano di far sentire la loro voce? Non dobbiamo mai dimenticare le lezioni del passato: il campo di concentramento di Mauthausen è stato costruito in Austria da una società privata che beneficiava anche di finanziamenti che arrivavano dalla Croce Rossa tedesca (Il nazista Oswald Pohl, tesoriere delle SS e futuro generale fu presidente dell’organizzazione in Germania a partire dal 1938, ndr). Oggi quando i bielorussi fanno donazioni alla Croce Rossa, da notare che alcune fabbriche e scuole sono obbligate a contribuire, quei soldi possono alimentare le frodi elettorali come negli anni Trenta in Germania potevano essere usati per costruire un lager.
«Croci rosse» contribuisce a smontare una parte di quei miti patriottici e nazionalisti che Putin ha evocato per tentare di giustificare la sua guerra d’invasione. Sono in molti, nel suo Paese come in Russia, ad essere ancora sensibili a questo tipo di narrazione? E una storia come quella che lei racconta nel romanzo che tipo di eco ha avuto tra i lettori?
In questi Paesi ci sono ancora tante persone che credono alle sciocchezze della tv di Stato, sono in qualche modo «programmate» per pensarla così e quindi temo che nessun libro possa aiutarle a cambiare idea. Credo che sia Lukashenko che Putin possano essere definiti come eredi di Stalin: la pensano come lui e adottano i suoi metodi. Putin definisce il crollo dell’Unione Sovietica come la principale tragedia geopolitica del XX secolo. Mosca ha chiuso la ong Memorial (fondata dal Nobel per la pace Sakharov, ndr) che lottava per la difesa dei diritti umani e per preservare la memoria storica e ricordare ai russi i crimini del regime sovietico. Putin sogna di restaurare l’Unione Sovietica, e proprio in questo momento, sotto ai nostri occhi, ha scatenato una guerra sanguinosa contro le persone che in Ucraina vogliono liberarsi definitivamente di quel passato.
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