«La trama non ha grande importanza, è solo un conduttore che permette il passaggio di qualcosa di molto più profondo e pesante. Un ponte ben illuminato che collega lo scrittore con il lettore. Esorcizza il primo liberandolo da qualcosa di amaro, e incanta il secondo rivelandogli un’amarezza che, una volta condivisa, si digerisce diversamente». Così scrive Samanta Schweblin nell’introduzione che accompagna Uccelli vivi (Sur, nella cristallina traduzione di Maria Nicola, pp. 221, € 17,50), preparando a quel «qualcosa di amaro» prossimo a detonare nei racconti che seguiranno, una corposa selezione tratta dai suoi primi libri, El núcleo del disturbio (2002) e Pájaros en la boca (2009). Il volume è senz’altro una lettura imprescindibile per immergersi nelle atmosfere disturbanti della letteratura di questa scrittrice, argentina ma residente a Berlino e ormai acclamata internazionalmente (nel 2021 il suo romanzo Distanza di sicurezza diventa un film prodotto da Netflix, e nel 2022 la traduzione inglese del libro vince il National Book Award, uno dei più prestigiosi premi letterari statunitensi).

La tradizione del fantastico rioplatense palpita in tutta la narrativa di Schweblin, se intendiamo per fantastico qualcosa che forza i limiti del quotidiano e trasforma la fisionomia del familiare fino a renderlo irriconoscibile, rivelandone il rovescio indomabile e inquietante, a volte persino mostruoso (come avviene attualmente in altre scrittrici latinoamericane, ad esempio Mariana Enriquez, anche lei argentina, oppure nelle ecuadoriane María Fernanda Ampuero e Mónica Ojeda).

Nella scrittura di Schweblin, lo spaesamento dinanzi a ciò che è noto si esprime attraverso l’ellissi e il non detto. Una prosa scarna e asciutta, come scarne – senza corpo – apparivano le relazioni in Distanza di sicurezza (Sur, 2020), o nei racconti di Sette case vuote (Sur, 2021), accomunati dalla presenza di legami-case emotivamente disabitate. Qui la compattezza della realtà si dimostrava friabile, come assediata (e alla fine espugnata) dalla minaccia di una catastrofe incombente alla quale la narrazione alludeva ininterrottamente, senza però mai enunciarla. Questo procedimento narrativo è assai più accentuato nei racconti degli esordi. In Uccelli vivi, infatti, le situazioni ritratte – fissate attraverso poche precise pennellate, più che affidate a uno sviluppo narrativo compiuto – appaiono come la conseguenza di una causa che resta inspiegata nell’arco del racconto e che permane indecifrabile al lettore anche dopo il finale, secondo il modello consolidato della genealogia dell’assurdo. Ad esempio, «Lo scavo» richiama certe angoscianti atmosfere buzzatiane: un uomo affitta una casa per la villeggiatura, al suo arrivo trova un operaio intento a scavare una buca nel giardino per realizzare «il progetto», e però «il progetto» rimane oscuro fino alla fine, come oscuro rimane il motivo per cui l’operaio, che pure sostiene di essere stato assunto dal villeggiante, intimi minacciosamente a quest’ultimo di non azzardarsi a scavare al posto suo… Anche il racconto che dà il titolo alla raccolta, «Uccelli vivi», è esemplare dello straniamento profondo a cui viene sottoposta la logica delle azioni e del reale, e del turbamento che questa torsione produce. Sara, figlia adolescente di genitori separati (unico dato che lascia intravedere una spiegazione per l’evento che ci viene narrato), comincia a nutrirsi voracemente di uccelli vivi. Quando il padre cerca di impedirglielo, la ragazza diventa «talmente pallida da sembrare malata», tanto che l’uomo alla fine si piegherà a soddisfarne le ferine abitudini alimentari.

La trama, come si è detto, non ha grande importanza, ma costituisce la cornice entro cui si vanno a insediare le immagini perturbanti dipinte da Schweblin: la grande bocca dai denti rossi sporchi di sangue di Sara (ma anche il corpo morto di donna rannicchiato come un feto di «La pesante valigia di Benavides», le spose in abito nuziale scaricate dai mariti in aperta campagna di «Donne disperate»).

I racconti si aprono ovviamente a molteplici letture metaforiche, tutte plausibili ma nessuna esclusiva, come avveniva nei congegni narrativi di un altro argentino che di incubi e paradossi fantastici fu un grande artefice, Julio Cortázar. Inevitabile collegare gli uccelli vivi che la protagonista di Schweblin ingerisce ai coniglietti terribili che il narratore di «Lettera a una signorina a Parigi» –  tra i racconti più enigmatici del Bestiario cortazariano – vomitava uno dopo l’altro, fatto inaudito che lo induce al suicidio. Il significato ultimo dei racconti di Schweblin sembra spesso insediarsi proprio in questo vuoto incolmabile, nella deformazione cui è sottoposta la porzione di reale che viene fotografata. Così succede anche in «Nella steppa», una storia grottesca che pone sotto il segno dell’ambivalenza il desiderio di avere un figlio. Questo è il tema portante anche di «Conserve», uno dei racconti più suggestivi della raccolta, nel quale si descrive un trattamento grazie al quale è possibile invertire il processo della gravidanza e, invece di partorire un bambino, vomitare «una cosa piccola, delle dimensioni di una mandorla», rimandando la gestazione a un momento più propizio.

La sovversione di ogni stereotipo sul femminile e sulla maternità, insieme all’esplorazione degli anfratti bui della relazione genitori-figli, sono le ossessioni attorno cui si costruisce l’universo letterario della scrittrice argentina. Proprio con questi temi si confrontano i racconti più incisivi e riusciti del volume, nei quali si avverte con maggior forza l’idea di scrittura come esorcismo (altra eredità cortazariana) che Schweblin annuncia nell’introduzione.  Il non detto in queste pagine non è solo un ingrediente di cucina letteraria a beneficio di una formula di successo, ma ciò a cui l’autrice affida la creazione di uno spazio ambiguo e indefinito che si espande oltre il limite del racconto, nel quale saranno altre ossessioni, quelle del lettore, a riempire il vuoto del senso che costantemente si nega, della realtà che cede.