La prima conseguenza economica dell’attacco anglo-americano agli Houthi dello Yemen è stata un’impennata del prezzo del petrolio. Inevitabile: dal Mar Rosso transita il 12% del greggio venduto sul mercato mondiale. In un solo giorno, il prezzo a barile del Brent del Mare del Nord, con consegna a febbraio, ha fatto registrare un rialzo del 2,52%, portandosi a 81,07 dollari, mentre un barile di Wti è salito del 2,73%, fino a 75,57 dollari. Più o meno ai livelli di due mesi fa.

Le previsioni? Tutto dipenderà dell’evolversi del conflitto e, naturalmente, dalle scommesse sui derivati che hanno questa materia prima come sottostante. I giochi sono aperti, e, come sempre, una manipolazione del mercato ad opera della speculazione finanziaria è già dietro l’angolo.

Non solo petrolio, però. La tratta in questione è importante anche per il gas liquefatto e per i cereali. Altri beni prioritari nel mercato dei futures. Guerra e finanza speculativa: un ticket ormai collaudato, come si è visto di recente col gas quotato ad Amsterdam. Ma il problema sono anche le strozzature nelle linee di approvvigionamento di altri beni, di consumo e strumentali, compresi i semilavorati e la componentistica (Tesla ha deciso di sospendere la produzione in Germania dal 29 gennaio all’11 febbraio).

Lo stretto di Bab al-Mandab è la principale porta di ingresso delle merci europee dirette verso l’Asia, e viceversa. Da lì passa un terzo delle navi container di tutto il mondo. Cambiare rotta significa non solo allungare i tempi di consegna, ma anche costi di trasporto più elevati e quindi prezzi più alti alla produzione e al consumo. Proprio adesso che l’Europa continua a far i conti con una perniciosa inflazione da costi (e con gli effetti recessivi della politica della Bce volta a contrastarla), figlia della pandemia e della guerra in Ucraina.

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Per l’Italia la questione è piuttosto seria. Nonostante le recenti scelte del governo riguardanti la Via della Seta, il mercato asiatico (compreso quello mediorientale), e quello cinese in particolare (nel 2022 l’interscambio è stato di 73,9 miliardi di euro), rappresentano ancora uno sbocco fondamentale per i nostri prodotti agro-alimentari e per i nostri beni di lusso. Per non parlare delle nuove tecnologie e della farmaceutica. Un mercato vitale: tra Suez e Bab al-Mandab passa più del 40% del commercio marittimo italiano.

Logistica più difficile e più cara (l’alternativa è il Capo di Buona Speranza, via Oceano Atlantico), aumento del costo dei carburanti, impennata dei costi assicurativi. È il mix che potrebbe assestare un colpo molto duro alla nostra economia (l’export vale il 32% della ricchezza prodotta in un anno). Nel quarto trimestre del 2023 il pil si è praticamente fermato. E per il 2024 tutte le previsioni più accreditate parlano di sostanziale stagnazione (0,7% per Istat e Ocse, 0,4% per Prometea). Uno scenario molto diverso da quello tratteggiato dal governo nella Nadef (crescita nel 2024 stimata all’1,2%).

E su tutto incombe il nuovo Patto di stabilità europeo, che per il nostro Paese potrà significare tagli alla spesa pubblica (a meno che non si vogliano mettere nuove tasse) fino a 12-14 miliardi all’anno. Il costo di un aggiustamento fiscale settennale, calcolato allo 0,61% del pil (studio del gruppo Bruegel). Fatto salvo il settore delle armi (per la guerra l’austerità non vale), quale sarà l’impatto di questi tagli sulla performance dell’economia? La risposta a questa domanda, adesso, non potrà fare a meno di considerare quel che sta accadendo a quattromila chilometri dal nostro confine meridionale.

Propaganda e paradossi. A giustificazione dell’attacco contro gli Houthi, gli anglo-americani hanno parlato di «difesa del commercio mondiale». Certo, un po’ come spegnere un incendio ricorrendo alla benzina.