Sakamoto, il professore magico
Ryuichi Sakamoto
Alias

Sakamoto, il professore magico

Ricordi/La scomparsa del grande musicista giapponese. Aveva 71 anni Dagli esordi con la Yellow Magic Orchestra all’Oscar per «L'ultimo imperatore» di Bertolucci. Anche attore, si supera in «Furyo»
Pubblicato più di un anno faEdizione del 8 aprile 2023

La morte di Ryuichi Sakamoto, avvenuta lo scorso 28 marzo, è stata annunciata, per espressa volontà dell’artista, solo a funerali avvenuti da una sobria lettera del suo management. «È vissuto con la sua musica fino alla fine», riporta il comunicato che cita anche una frase in latino che era cara al musicista: «ars long, vita brevis», l’arte è duratura, la vita è breve.

Sakamoto aveva dovuto confrontarsi con la brevità della vita fin dal giugno 2014 quando gli era stato diagnosticato un tumore alla gola. Lo aveva rivelato pubblicamente con una lettera sul suo sito in cui annunciava che si sarebbe preso una pausa dagli impegni, scusandosi con collaboratori e organizzatori di festival per i disagi che stava causando loro.

Nessuno dovrebbe mai scusarsi per una malattia di cui è vittima, ma in quelle parole c’era una fedeltà al proprio dovere squisitamente nipponica e anche una devozione assoluta alla disciplina che era diventata la sua ragione di essere. Definì poi questo periodo «il più duro e fisicamente doloroso della mia vita».

Nel gennaio del 2021 fu costretto a comunicare il ripresentarsi del cancro, questa volta all’intestino, consapevole però che la sfida non poteva più essere vinta. «Da ora in poi vivrò accompagnato dal cancro – disse – ma spero di fare musica ancora per un po’».

Ha avuto tempo per comporre una colonna sonora per la serie anime Exception, per esibirsi dal vivo in un concerto via streaming diffuso a fine 2022 e per pubblicare un nuovo album di composizioni inedite, 12, uscito a gennaio. «Le mie forze stanno venendo meno – aveva dichiarato presentando la sua ultima esibizione online – e non sarei più in grado di tenere un concerto di un’ora e mezza. Così ho suonato una canzone alla volta e poi ho montato il tutto come se fosse un normale spettacolo. Penso possa essere piacevole come una classica esibizione. Buon divertimento».

Lo scorso 31 marzo i giornali giapponesi hanno pubblicato, senza sapere della sua scomparsa già avvenuta, una sua lettera alla governatrice di Tokyo Yuriko Koike in cui il musicista esprimeva il suo dissenso per un piano di rinnovamento di un’area della città che prevede l’abbattimento di centinaia di alberi, sacrificando una delle aree verdi della metropoli. «Come cittadino non posso rimanere in silenzio», scriveva l’artista. L’attivismo, soprattutto riguardo alle tematiche ambientali, lo ha sempre contraddistinto e questa lettera scritta in punto di morte dimostra che Sakamoto lo concepiva, proprio al pari della musica, come qualcosa destinato a essere più duraturo e a trascendere la vita stessa.

LEZIONI DI PIANO

Ryuichi Sakamoto era nato 71 anni fa a Tokyo. Le sue prime lezioni di pianoforte le prese a sei anni e si dedicò da adolescente agli studi musicali all’Università delle Arti nella capitale giapponese. Sin da subito dimostrò eclettismo nelle sue passioni, accompagnando l’ascolto degli artisti classici, in particolare Bach e Debussy, a quello del pop rock degli anni Sessanta, studiando la musica etnica asiatica e africana e sviluppando un particolare gusto per la ricerca. Approfondì la musica classica contemporanea di Boulez, Stockhausen e Ligeti, si avvicinò alle avanguardie artistiche di Joseph Beuys e Fluxus, alla pop art di Andy Warhol e alle sperimentazioni elettroniche del compositore greco-francese Iannis Xenakis.

Iniziò la carriera come session man, arrangiatore e produttore. La sua vasta cultura gli valse il soprannome de «Il professore». Il suo debutto discografico fu nel segno della sperimentazione più sfrenata: un album del 1975 intitolato Disappointment-Hateruma e che lo vedeva al fianco di un percussionista jazz, Tsuchitori Toshiyuki. Il duo si produceva in una serie di scriteriate improvvisazioni tra il rumorismo e il free jazz. Ma la sua carriera aveva in serbo una svolta in una direzione molto diversa. Nel 1978 con Haruomi Hosono e Yukihiro Takahashi, Sakamoto fondò la Yellow Magic Orchestra.

Erano gli anni in cui il pubblico del pop stava scoprendo la musica elettronica. Kraftwerk, Tangerine Dream e Jean-Michel Jarre avevano segnato la strada, ma l’influenza era prepotente anche nel progressive rock e accompagnava il boom della disco-dance. La Yellow Magic Orchestra nacque quasi per caso con una cover di un pezzo anni Cinquanta, Firecracker, appartenente al repertorio dell’americano Martin Denny, tra i nomi di riferimento dell’Exotica. Il brano fu un grande successo anche se era stato concepito come presa in giro di un certo modo di rileggere la musica tradizionale giapponese.

Il trio diventò così una band vera e propria, Sakamoto e soci si guadagnarono lo status di popstar in patria (dove si parlò di «Yellow Fever», febbre gialla) e furono i primi artisti nipponici pronti per un pubblico giovanile internazionale che stava scoprendo i cartoni animati manga e l’elettronica di consumo made in Japan.

Nel 1980 il trio firmò il successo Computer Game, un’accattivante electro funk che finì nella top 20 britannica e li portò anche a esibirsi sul palco della trasmissione televisiva americana Soul Train. I tre sono passati alla storia come i Kraftwerk giapponesi, ma se la band teutonica era, dichiaratamente, l’ispirazione principale, la loro musica era capace di aprirsi a diverse tendenze e a incorporare una buona dose di ironia e satira soprattutto contro i pregiudizi nei confronti dei giapponesi e della cultura est-asiatica.

Un brano scritto da Sakamoto per la band, Behind the Mask, era costruito attorno a un groove formidabile per gli standard degli anni Ottanta tanto da venire inciso da Michael Jackson con l’intenzione di inserirlo in Thriller. All’ultimo minuto venne però accantonato (compare nell’album postumo del 2010 del King of Pop) e fu comunque reinterpretato da Greg Phillinganes (tastierista di Jackson) e da Eric Clapton (che la incise con Phil Collins).

La parabola artistica della Yellow Magic Orchestra si interruppe nel 1983 dopo sette album pubblicati in cinque anni, tutti bestseller in patria. Ai membri del trio la carriera da star rischiava di andare un po’ stretta artisticamente e lo schivo Sakamoto, che con ironia definirà questa parabola «un incidente», si trovava anche a disagio nella vita quotidiana. «Quando camminavo per le strade di Tokyo la gente mi riconosceva e mi indicava. E io lo odiavo», dirà in un’intervista.

IL GRANDE SCHERMO

L’altro capitolo della carriera di Sakamoto iniziò nel 1983 quando il regista Nagisa Oshima lo scelse come attore per il suo film Merry Christmas, Mr. Lawrence (in Italia uscito col titolo di Furyo) affiancandolo a David Bowie. La storia, che si svolge in un campo di prigionia giapponese durante la Seconda Guerra Mondiale, vedeva Sakamoto e Bowie rivestire due ruoli opposti: il capo-campo e il prigioniero. Nel clima crudele di un lager tra i due si sviluppa una relazione in cui i sottintesi omosessuali sono nascosti, impliciti, ma impossibili da ignorare. Al di là del suo ruolo sullo schermo, Sakamoto fu incaricato anche di comporre la colonna sonora. Il tema principale della pellicola divenne una delle sue composizioni più popolari a livello internazionale; sulla melodia venne anche pubblicato un singolo cantato da David Sylvian intitolato Forbidden Colors. La colonna sonora ricevette il Bafta Award, l’Oscar britannico.

Anni dopo, in un’intervista, l’artista ancora si stupiva su come si fosse svolto quel suo primo contatto con il cinema: «Oshima si fidò di me completamente. Mi diede totale libertà artistica. Era la mia prima volta e io mi chiedevo se non ci fosse qualcosa di sbagliato. Ero un dilettante sia come attore che come compositore di colonne sonore. Nessuno mi aveva mai detto come scrivere musica per un film. Andai dal produttore Jeremy Thomas a chiedere dei consigli e lui mi indicò come esempio Quarto potere. Ma quella musica a me non diceva molto, così mi dovetti inventare un metodo personale».

Qualche mese dopo Bernardo Bertolucci lo chiamò per lavorare per il suo nuovo film, il kolossal L’ultimo imperatore, anche in questo caso prodotto da Jeremy Thomas. Curiosamente, il regista italiano lo voleva solo come attore. Sakamoto partecipò alle riprese a Pechino e a Cinecittà. Finito il lavoro sul set, dopo qualche tempo, ricevette una telefonata da Thomas che gli chiedeva di realizzare la colonna sonora del film. Gli diede una settimana di tempo. Preso alla sprovvista, il compositore cercò di negoziare qualche giorno in più. Fu Bertolucci a sfidarlo dicendogli: «Morricone ce la farebbe». Sakamoto si mise quindi al lavoro e in una settimana produsse 45 segmenti musicali. «Trovai alcuni musicisti cinesi a Tokyo e registrai – ricordò -. Poi volai a Londra dove li feci ascoltare a Bertolucci, all’addetto al montaggio e ad alcuni della troupe. Suonai un pezzo e si misero subito a gridare “Bellissimo!”». Al lavoro musicale per il film parteciparono poi anche l’ex Talking Heads David Byrne e il compositore cinese Cong Su.

La musica per L’ultimo imperatore venne riconosciuta con un Oscar, un Golden Globe, un Bafta e un Grammy. La popstar riluttante era entrata nel gotha internazionale dei compositori. Da allora il lavoro per il cinema è stata una costante e l’artista ha realizzato quasi 50 colonne sonore.

Nel 1990 fu ancora al lavoro per Bertolucci per Il té nel deserto, per cui vinse un altro Golden Globe. La collaborazione con il regista italiano proseguì anche per Il piccolo Buddha.

Il suo eclettismo gli permise di lavorare per film di natura molto diversa, dal torbido erotismo giapponese di Tokyo Decadence del 1992, all’action-thriller Snake Eyes del ’98 diretto da Brian De Palma, dalle atmosfere indiane di Mumbai Diaries del 2011, fino al neo-western di Alejandro Iñárritu The Revenant del 2015 per cui si guadagnò una nomination agli Oscar. Collaborò inoltre con Oliver Stone per la mini serie Wild Palms, con Pedro Almodóvar in Tacchi a spillo, e con Volker Schlöndorff per la prima versione cinematografica di The Handmaid’s Tale. Firmò anche un pezzo per Black Rain di Ridley Scott del 1989. «Ogni volta – amava spiegare – comporre una colonna sonora è come fare un viaggio in una cultura sconosciuta».

I DISCHI
Parallelamente, Sakamoto ha proseguito una carriera all’insegna della ricerca e dello scambio di idee. La sua discografia è un catalogo di più di 40 album in studio e innumerevoli collaborazioni che testimoniano una cultura musicale onnivora e una inesauribile curiosità. In ambito pop rock lavorò, dopo il successo di Forbidden Colors, più volte con David Sylvian curando gli arrangiamenti di uno dei suoi album più belli, Secrets of the Beehive del 1987. Nel 1986 lo si vide ospite di Album dei PiL, l’incarnazione post punk di Johnny Lydon Rotten. Nel disco il musicista di Tokyo si occupava dei sintetizzatori, l’ex leader dei Sex Pistols aveva reclutato una band all-star. Il singolo Rise vedeva Sakamoto e Lydon accompagnati da Steve Vai alla chitarra, Bill Laswell al basso e Tony Williams alla batteria.

Già ai tempi della Yellow Magic Orchestra aveva intrapreso una carriera solista un po’ più libera dai vincoli creativi imposti da una formazione con obblighi commerciali. In B-2 Unit, lp del 1980, la musica elettronica cercava di espandersi e trovare una, ai tempi improbabile, consonanza con sonorità più affini a quella che oggi chiamiamo world music. In un brano di quella raccolta, Riot in Lagos, i Kraftwerk sembravano incontrare Fela Kuti aprendo nuovi orizzonti che saranno poi esplorati da scene come il trip hop o la drum’n’bass. L’album Futurista del 1986 è un tributo synth pop al futurismo italiano con tanto di campionamenti dei discorsi di Filippo Tommaso Marinetti.

Lo stesso anno pubblica Illustrated Musical Encyclopedia (già uscito due anni prima in una versione giapponese) un divertissement tra easy listening e pop jazz. Beauty del 1989 è un viaggio musicale in tutte le direzioni possibili: dal rock, alla techno, con influenze tradizionali e digressioni nella musica etnica.

La raccolta vede un cast d’eccezione composto da Arto Lindsay, Brian Wilson, Robbie Robertson, Youssou N’Dour e Robert Wyatt.

Nel 2002 iniziò una fruttuosa cooperazione con Alva Noto (Carsten Nicolai), musicista e artista visuale tedesco, il loro primo album insieme, Vroon è un affresco ambient in cui il pianoforte minimalista del musicista giapponese si confronta, spesso in maniera volutamente conflittuale, con disturbi e contrappunti elettronici dell’avanguardista europeo. Quasi inevitabile fu nel 2007 l’incontro con Christian Fennesz musicista elettronico austriaco, insieme i due firmarono i dischi Cendre e Flumina. Nel 2009 con Playing the Piano, decise di tornare all’essenza della sua musica per un «unplugged» pianistico in cui reinterpretava il suo repertorio più celebre.

Il suo disco d’addio, 12, ascoltato con la consapevolezza della sofferenza di chi lo stava incidendo, è una struggente e poetica opera di musica minimale in cui il pianoforte è attraversato da sussulti elettronici e accompagnato quasi sempre dal ritmo più naturale di tutti, quello del respiro. Un suono così scontato da esserci ormai del tutto consueto, ma una conquista per chi sa di avere i giorni contati.

PROGETTI MULTIMEDIALI

«Idealmente io comporrei per 24 ore al giorno», disse una volta il musicista che negli anni è tornato anche al lavoro sul palco e in studio con i suoi compagni d’avventura della Yellow Magic Orchestra. Un altro ambito esplorato da Sakamoto è stato quello delle installazioni artistiche. Nel 1999 ha varato il progetto multimediale Life, in collaborazione con Shiro Takatani e con contributi di Bernardo Bertolucci e della coreografa Pina Bausch. «È difficile da definire – ha spiegato – ma la musica per le installazioni ha la libertà del tempo. Può durare ventiquattro ore come un anno intero».

Tra le sue attività non va dimenticato l’ambizioso progetto Schola che voleva, attraverso workshop e pubblicazioni discografiche, diffondere la cultura musicale ai ragazzi delle scuole. Così come va ricordata la sua etichetta discografica Commmons (scritto con tre emme), fondata nel 2006, che ha spaziato tra dischi J pop, new age o noise rock, ospitando artisti di confine come Boredoms e OOIOO. Né va ovviamente dimenticato il suo costante impegno in difesa dell’ambiente e contro il nucleare, un impegno diventato anche più intenso dopo il disastro della centrale atomica di Fukushima.

Oggi una nuova generazione di giovani cresce accompagnata dalla cultura pop che proviene dall’estremo oriente: dai manga al cinema alla musica commerciale. Quando la YMO esordì i musicisti est-asiatici venivano trattati con curiosità, paternalismo e un po’ di supponente diffidenza. Non è un caso se Suga, membro della teen-band coreana BTS, oggi una delle formazioni musicali più di successo al mondo, alla notizia della sua morte ha ricordato Sakamoto come un maestro.

Il monopolio anglosassone sulla cultura giovanile di massa oggi è venuto meno e forse in questo Sakamoto ha avuto un ruolo. Il suo lavoro ha ampliato il palcoscenico della cultura globale, ma come ogni vero artista che vuole andare oltre, non si è mai sentito appagato: «Attorno ai 20 anni – disse – avrei voluto fare il regista, il matematico, il romanziere, il compositore, il magnaccia… Ma a dispetto dei miei sogni la vita è sempre stata limitata».

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