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Rossanda, gli anni della passione inesausta

Rossanda, gli anni della passione inesaustaDaniel Olbrychski e Barbara Sukowa in Rosa Luxemburg di Margarethe von Trotta, 1986

Intellettuali del Novecento Antonio Banfi, Marx, Brecht, Mann e la cultura tedesca, Marangoni... La germanista (e amica) Maria Fancelli rivisita la formazione milanese di Rossana Rossanda in un saggio per Clichy: Il diciassettesimo tasto

Pubblicato quasi 2 anni faEdizione del 4 dicembre 2022

Si era iscritta diciassettenne, nel 1941, all’Università Statale di Milano. Aveva dovuto lasciare, con la famiglia, la natia Pola e aveva scelto di partecipare alla Resistenza ubbidendo a un impulso di entusiasmo più che a un soppesato ragionamento.

Il titolo del ritratto di Rossana Rossanda (1924-2020) tracciato da Maria Fancelli – Rossana Rossanda Il diciassettesimo tasto (Edizioni Clichy, pp. 125, € 7,90) – allude all’età dell’impazienza della giovane e prende le mosse dalla svolta di un momento decisivo: «Scalpitai fino a diciassette anni. Ero in una villa d’una appena più adulta amica pianista sul lago Maggiore (…), e io, che non conosco una nota, feci solennemente scorrere le dita fino al diciassettesimo tasto del pianoforte. Questo è il suono della mia vita mi dissi, questo è il mio registro, così sarà per me».

Fancelli, germanista emerita dell’Ateneo fiorentino, anziché sgranare date e incontri di un itinerario biografico cronologicamente scandito, assume a fulcro della sua analisi l’esplodere di una vocazione.

Il professore per eccellenza che aveva affascinato Rossana era Antonio Banfi. Lo scoprì comunista quando il docente, rispondendo alla domanda di indicazioni bibliografiche, le consigliò una serie di testi inequivocabili: nella lista spiccavano opere di Marx, Laski, e il Lenin di Stato e rivoluzione. L’allieva si dette a leggerli con furia, e in una notte del 1943 si sentì come «invasa dalla politica».

Tramite di questa sorta di «chiamata» fu proprio Lenin. E Fancelli fa notare che il lessico usato per dire quest’accensione improvvisa reca un’impronta non dissimile da quella che la teologia impiega per i mistici: fu un «abbandono estatico», un rapimento che non lasciava scampo, una «chiamata» appunto.

Perciò è negli anni milanesi che vanno «cercati i fondamenti di una soggettività in divenire, le radici di una scelta politica e forse anche il filo che tiene insieme l’ordito di tutta una vita». Di qui il taglio da Ideengeschichte del succoso saggio.

Nella fase fondativa si forma l’abito permanente di una passione inesausta.

La scoperta fu traumatizzante. «Possibile che il mio maestro e idolo fosse parte dell’idra bolscevica?».Un testo programmatico di Banfi riassume il senso della prospettiva che si dischiude: sono le sedici pagine di Moralismo e moralità («Studi filosofici», n.1-2, 1944).

«L’imperativo categorico era sopra di me, come il famoso cielo stellato, ed ero troppo luciferina per tagliare la corda»Rossana Rossanda

«Moralità è per noi oggi, soprattutto – vi sta scritto –, il risveglio di un’universale, operosa costruzione del proprio mondo». Rossanda aggiunge: «L’imperativo categorico era sopra di me, come il famoso cielo stellato, ed ero troppo luciferina per tagliare la corda». Si percepisce l’eco di un neokantismo non estraneo agli interessi di Banfi, «avverso a ogni posizione dogmatica», pensatore di respiro europeo, polemico contro il determinismo cui veniva ridotto Marx.

Se il moralismo era l’enunciazione solenne di principii tesa a emettere severi e inerti giudizi, la moralità era la lotta per dar loro carne e sangue, per renderli tendenzialmente concreti. A proposito di Hegel e della sua contemporaneità Banfi era molto chiaro: «Possiamo e dobbiamo liberare l’implicita pura esigenza teoretica che ispira e sostiene il suo pensiero, e sviluppare le forme della sua attualità».

Ai guardinghi custodi dell’ortodossia la ricerca poteva apparire eclettica. Consisteva, invece, in un libero esplorare nella grande cultura tedesca. Sullo sfondo Georg Simmel, allora poco frequentato, e la sua ansia sociologica che induceva al confronto costante tra obiettivi e risultati.

Rossanda si trova a suo agio in questo panorama («La cultura tedesca era il mio pane … Hegel mio nonno, Marx mio padre, Brecht mio fratello, Thomas Mann mio cugino») e rinuncia a laurearsi con Matteo Marangoni, mai abbandonando l’attenzione per l’Estetica e per le letterature. Renato Serra è, sintomaticamente, un eroe esemplare perché insegue un’inquieta corrispondenza tra vita e scrittura.

Tra il 1951 e il 1963 Rossanda dirige la Casa della Cultura di Milano. Approssimativamente si potrebbero abbozzare due linee, una lombarda Cattaneo-Vittorini-Banfi e una romana Labriola- Croce- Gramsci: quella lombarda più ispirata a un modello illuministico, quella romana più influenzata dalla reinterpretazione dello storicismo.

Rossanda nel 1962 si trasferisce a Roma e lascia con nostalgia la città dove si era formata («Milano era europea»), si era sposata (con Rodolfo Banfi) e aveva contribuito a elaborare originali direttrici.

La durata dell’incarico conferitole di responsabile del settore culturale del Pci dura appena un triennio. La sostituisce Paolo Bufalini. Il vento del Nord non aveva soffiato abbastanza forte.

Fancelli corre veloce dopo aver approfondito capitoli essenziali per capire l’avventura della «ragazza del secolo scorso».

Il seguito è conosciuto.

Delle rivolte del Sessantotto Rossanda scriverà: «Il problema degli studenti non è degli studenti, ma di tutto il movimento operaio rivoluzionario». Dall’incidenza generale del fenomeno nasce «il manifesto», rivista dal 1969, quotidiano dal 1971.

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La «radiazione» dal Pci è un doloroso passaggio, che evidenzia un malcelato dogmatismo. A Rossanda piacciono sentenze conturbanti. Davanti alla tragedia del sequestro di Moro non tira fuori frasi edulcorate.

In un pezzo famoso, L’album di famiglia, è esplicita: «In verità, chiunque sia stato comunista negli anni cinquanta riconosce di colpo il nuovo linguaggio delle Br. Sembra di sfogliare l’album di famiglia: ci sono tutti gli ingredienti che ci vennero propinati nei corsi su Stalin e Ždanov di felice memoria». Con onesta provocazione precisa: «Le Brigate Rosse sono una storia della sinistra» (1994).

Il discorso non sarebbe completo se non si insistesse sulla tensione religiosa che la pervade e sugli incontri a Montegiove, eremo camaldolese: «Perché che cosa restava a una formazione come la mia, marxista e pascaliana e laica, se non il capire e essere capiti, unico terreno, ma liminare, in cui ragione e sentimento, messa in parola e consegna di sé sono la stessa cosa?».

Sono immaginabili gli ultimi anni parigini a fianco del marito K. S. Karol (Karol Kewes, straordinario intellettuale polacco di origine ebrea).

Dopo la sua morte (2014) Rossana fa ritorno a Roma. Il comunismo sognato e il femminismo politico in lei si congiungono: «Bisogna che sappiamo che poggiamo tutte in qualche modo sul corpo fracassato di Rosa Luxemburg» (1979). Riflettendo sulle reticenze e le falsificazioni del Pci architettate nel dopoguerra, ammette le responsabilità collettive e personali: «Gli errori furono nostri, non imposti».

La pagina dedicata a Rossana Rossanda

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