Mi è capitato di ricordare, in questo spazio, che per il femminismo della differenza italiano effettivamente non aveva molto senso rivendicare l’aborto come un «diritto». La discussione ora si è accesa su questo punto per gli interventi della neoministra Eugenia Roccella.
Il confronto coinvolge molte donne, ma penso che non sarebbe male se anche noi maschi provassimo a dire qualcosa.
Provo disagio quando un uomo, magari di sinistra, si inalbera alzando la bandiera del diritto all’aborto senza nulla dire però sul fatto che se una donna rimane incinta sarebbe ovvio interrogarsi anche sulla responsabilità di un maschio. Certo la donna ha la più radicale libertà di decidere sul proprio corpo, che tale rimane anche quando un’altra creatura comincia a esistere dentro di lei.
Ma chi ha la facoltà, con il proprio seme, di causare la gravidanza, se ne può lavare le mani? Non dovrebbe pensare a come comportarsi se non c’è una decisione comune di mettere nel conto un figlio o figlia? E magari interrogarsi sul fatto che finora i «rimedi» trovati dalla scienza riguardano solo il corpo femminile e non sono privi di effetti invasivi e dolorosi?
Ma il punto da chiarire nella discussione con Roccella – anche per provare ad accogliere il suo invito a provare «curiosità per chi la pensa diversamente», come ha scritto sulla Stampa – è una sua singolare omissione. Certo il femminismo della differenza negli anni ’70 non amava la parola «diritto» per nominare l’aborto, e non gradiva gli interventi legislativi sul corpo delle donne (in genere di segno patriarcale). Però chiedeva la depenalizzazione dell’aborto, oltre a battersi perché lo stupro non fosse più un reato contro la «morale» ma invece contro la «persona».
Era in realtà una posizione assai più radicale – e ci voleva ben un atto legislativo per eliminare il reato di aborto – rispetto al compromesso (tra sinistra e cattolici) poi rappresentato dalla “194”.
È anche vero che queste cose pochi (e non moltissime) se le ricordano o, se giovani, le sanno.
Basterebbe però andare a leggersi il testo femminista del 1975 sulla questione – Noi sull’aborto facciamo un lavoro politico diverso – ora ripubblicato nella nuova edizione aggiornata del libro di Lia Cigarini La politica del desiderio, Orthotes, 2022. (Forse su questo volume, e certo anche su altri, si dovrebbero organizzare corsi di formazione per chi intende di occuparsi di politica. Magari anche per qualche giornalista. Se si rilancia in tv e sui giornali la posizione di Roccella con una certa enfasi non sarebbe meglio informarsi su come erano andate davvero le cose?).
Ma veniamo al «che fare» da parte del governo. Giorgia Meloni ha detto che si occuperà del «diritto di non abortire». Una delle sue più infelici e infondate frasi a effetto. Prendiamola per una apprezzabile intenzione di «prevenire» l’aborto.
Più che almanaccare su certe prescrizioni della “194”, il cui limite maggiore è la difficoltà di assicurare il personale medico per via delle molte obiezioni di coscienza, non sarebbe più giusto parlare chiaramente nelle scuole, con studenti e studentesse, di come si può provare il piacere dell’amore senza rischiare una gravidanza non voluta? Far funzionare bene i consultori?
Questo implicherebbe un’idea del sesso davvero libera dalla prescrizione alla riproduzione. Roccella e questo governo condividono?
E per la «natalità» che cosa si intende fare? Sermoni moralistici alle donne che non fanno figli, qualche altro «bonus», o azioni per capovolgere l’assurdo di un mondo che non vede insieme produzione e riproduzione, «tutto il lavoro per vivere»?
Un’altra idea femminista che dovrebbe interessare anche noi uomini.
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