Per quanto il verbo  «piratare» suoni come un neologismo, impiegato in informatica e poi diffuso alle registrazioni musicali e al mondo dei libri,  in francese  cominciò ad essere usato già nel XVIII secolo: Voltaire, per esempio, lo utilizza per i plagiari, mentre nel 1793 Joseph Lakanal, proponendo alla Convenzione la prima legge in difesa del diritto d’autore (in ambito letterario, musicale ed artistico) denuncia i «pirati letterari», che si impadroniscono dei prodotti dell’ingegno altrui, costringendo il genio «a marciare verso l’immortalità attraverso gli orrori della miseria». Sotto accusa non sono più i letterati disonesti che copiano i lavori dei colleghi più bravi, ma con l’enfasi dell’oratoria rivoluzionaria, ad essere attaccata è la figura dell’editore che sfrutta lo scrittore, arricchendosi grazie a lui, ovvero negandogli un adeguato compenso: cioè, alla fin fine, senza riconoscergli il diritto di proprietà  e, quindi, per esempio, la trasmissibilità dei beni agli eredi. A questo proposito, per esempio,  Lakanal cita i discendenti del grande Corneille che vivevano in miseria. La questione era, già allora, delicata e sarebbero passati  molti anni prima che venisse definito e tutelato il moderno diritto d’autore. Se tuttavia si arretra a qualche decennio prima della rivoluzione, ci si imbatte in numerosi editori la cui prassi piratesca era del tutto simile a quella  contemporanea: semplicemente, rubavano titoli dagli altri cataloghi. Alle ragioni e al contesto che favorirono la grande diffusione di questo fenomeno nell’ancien régime è dedicato uno studio voluminoso e di godibilissima lettura,  Editori e pirati Il commercio librario nell’età dei lumi (traduzione di Svevo D’Onofrio, Adelphi, pp. 496, € 38,00), scritto da Robert Darnton, tra i più illustri studiosi contemporanei dell’Illuminismo, al quale dedicò il  suo secondo corposo libro (il primo trattava del mesmerismo) Il grande affare dei Lumi: storia editoriale dell’Encyclopédie.

Studi sulla celebre Enciclopedia di Diderot e D’Alembert non ne mancavano di certo, ma l’attenzione degli storici (da Franco Venturi a John Lough a Jacques Proust) si era fino ad allora concentrata sul chiedersi chi fossero gli enciclopedisti, quale la loro estrazione sociale, di quale ideologia si nutrissero; mentre Darnton ha spostato il fuoco dell’indagine su un terreno rimasto fino in secondo piano, vale a dire l’aspetto editoriale dell’impresa, nella sua dimensione sociale ed economica. Ha affrontato, quindi, l’effettiva diffusione delle diverse edizioni dell’Encyclopédie,  essendo favorito nella sua indagine – come ha ricordato ripetutamente – dal felice incontro, nel 1965, con un vero e proprio tesoro, di quelli che tutti gli storici sognano: l’archivio della Société typographique de Neuchâtel, fondata nel 1769 da Frédérich-Samuel Ostervald, da Jean-Élie Bertrand e da Samuel Fauche. Non era una grandissima casa editrice, ma è l’unica di cui è giunto a noi l’archivio pressoché integro, con decine di migliaia di documenti che hanno aspettato per duecento anni uno storico capace di valorizzarli: non solo, dunque,  di dominarne analiticamente la massa imponente, ma anche di metterli in relazione con le testimonianze provenienti dagli archivi, di solito lacunosi, di altri editori: quelli francesi (parigini prima di tutto, ma anche provinciali), nonché quelli dislocati  nell’area che Darnton chiama la «mezzaluna fertile» dell’editoria settecentesca.  Il termine (mutuato come è noto dall’archeologia) indica una vasta fascia di territorio ai confini orientali della Francia, la grande curva che si estende da nord a sud, da Amsterdam a Ginevra, e in cui prosperarono nella seconda metà del XVIII secolo numerose piccole e grandi imprese editoriali (tra le quali appunto la Société typographique de Neuchâtel) accomunate da due peculiarità: pubblicavano testi in francese (era la lingua franca del secolo, diffusa internazionalmente) e si facevano promotori  di quei libri che in Francia avevano una diffusione ostacolata, se non legalmente interdetta, vuoi dalla censura vuoi dagli altri costi di un’organizzazioni produttiva basata sulle corporazioni (che sarebbero state  abolite dalla rivoluzione nel 1791).

Il «privilegio» (cioè il permesso di stampare e commerciare un libro) era infatti rilasciato solo ai membri delle corporazioni dei librai, la più importante delle quali, in Francia, era quella parigina: ovviamente a detrimento degli autori (erano ben pochi gli scrittori che si mantenevano con il proprio lavoro), dei lettori e, infine, della concorrenza, vale a dire delle corporazioni provinciali (come quella di Lione, importante centro librario), che proprio perciò detestavano i parigini. Per quanto legalmente strozzata, la concorrenza riaffiorava tramite, appunto, la prassi della «pirateria»: copie dei libri editi a Parigi con privilegio erano stampate, fuori dai confini francesi e quindi oltre la portata dei sequestri delle autorità, e venivano poi contrabbandate in Francia, dove finivano nei canali  della distribuzione, dai grossisti fino ai librai al dettaglio e ai più umili venditori ambulanti.

Le edizioni dei volumi piratati erano di solito più economiche (i lussuosi in-folio erano riproposti in quarto e in ottavo) e la loro circolazione parallela era basata anche sugli scambi fra pirati, perché allo scopo di allargare il loro catalogo, gli editori si disponevano a scambiarsi parte della loro produzione.

Ne derivava un traffico semi-legale la cui fittissima trama è illustrata da Darnton ricorrendo a una serie di dettagli capaci di trasmettere  a chi legge  il senso vivo della ricerca storica, restituendogli il profumo di autenticità dei documenti via via citati e iniziandolo a particolari sorprendenti e spesso curiosi: gli scambi tra pirati erano calcolati e contrattati – veniamo a sapere – non in denaro, ma in fogli (stampati in fronte e retro); già allora, il costo maggiore della stampa era costituito dalla carta; e le transazioni non giuridicamente regolamentate erano largamente basate sulla fiducia reciproca (donde l’importanza di avere informazioni sulla solvibilità, sulla laboriosità, sull’onestà di questo o quel libraio). Sapidi ritratti di imprenditori grandi e piccoli attestano come i loro investimenti nella produzione e nel commercio librario fossero guidati dal profitto piuttosto che dalla adesione a qualche causa: solo alcuni di loro erano fautori, per quanto moderati, delle idee illuministe, e nemmeno tra questi si sarebbe probabilmente trovato qualcuno disposto a sacrificare il proprio interesse per écraser l’infâme. Il fatto che  tra gli autori più piratati ci fossero Voltaire e Rousseau, ma poi anche Raynal o l’intera Encyclopédie, era dovuto alla popolarità di cui godevano i «filosofi» (nella particolare accezione del termine nel Settecento); ma insieme a loro troviamo una selva di scrittori oggi conosciuti solo dai settecentisti, che godettero al tempo di un quarto d’ora di celebrità, magari in conseguenza di una condanna (gli editori sapevano perfettamente come una sentenza del Parlamento parigino che inviasse un libro al rogo si risolvesse in una pubblicità sicura). Ma  tra i libri più frequentemente c’erano anche titoli francamente pornografici  (Il Portiere dei Certosini, L’Accademia della Dame, Venere in convento e così via) insieme a testi religiosi, soprattutto quelli di ispirazione calvinista, la cui circolazione era proibita in Francia dopo la revoca dell’Editto di Nantes.

Con Editori e pirati ­  libro del tutto autonomo e, al tempo stesso  seconda parte di un dittico che comprende anche Un tour de France letterario (Carocci 2019) Darnton, che del resto ha già lavorato su altri temi e su altre epoche storiche, dichiara di abbandonare la ricerca centrata sull’archivio della Società di Neuchâtel, non senza avvertire che la miniera, da lui ampiamente sfruttata, non può dirsi esaurita: se non altro grazie al fatto che la ricerca storica non ha mai fine.