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Ripudiare la guerra per salvare il clima. E trovare i soldi che servono a risarcire

Ripudiare la guerra per salvare il clima. E trovare i soldi che servono a risarcireEffetti dell'uragano Ida negli Stati Uniti – Ap

Eventi climatici estremi Vanuatu: subito 1,2 miliardi per la vita. «Ma ora anche i ricchi piangono, così capiranno»

Pubblicato quasi 2 anni faEdizione del 8 novembre 2022

Si conferma come centrale, alla Conferenza delle parti Cop27 in Egitto, la discussione su un meccanismo di risarcimento per le perdite e i danni (loss & damage) dovuti ai cambiamenti climatici e subiti dai paesi e dalle comunità più vulnerabili. Danni che potrebbero raggiungere i 500 miliardi di dollari all’anno prima del 2030. Per l’eco-think tank Centre for Science and Environment (Cse) di New Delhi è un fatto di sopravvivenza e di giustizia: i responsabili storici del caos climatico devono pagare.

Punto di partenza il recentissimo rapporto «India 2022 – Extreme weather events». Una via crucis. L’India nei primi nove mesi del 2022 ha visto quasi un evento estremo al giorno. Ondate di calore mortali, siccità e inondazioni, cicloni e frane. Il vicino Pakistan e tante altre aree non sono da meno.

Riassume Sunita Narain, direttrice del Cse: «Vorremmo avere i dati anche per tutta l’Asia, l’Africa… In questa che è la nuova a-normalità occorre levare una voce collettiva per la giustizia climatica affinché perdite e danni siano risarciti».
LA PICCOLA ISOLA DI VANUATU, prima nel «World Risk Index 2021» , dà le cifre: «Abbiamo bisogno di 1,2 miliardi di dollari per contrastare i soli danni umani e ambientali imputabili al clima. Non sono colpa nostra», puntualizza Christophe Bartlett, Climate diplomacy manager dell’isola Stato; «quest’anno anche i paesi ricchi hanno pianto e forse ora capiscono meglio».

Ma il meccanismo di risarcimento, menzionato per la prima volta nel Piano d’azione della Cop13 (Bali, 2007), è ancora per aria. Alla Cop26 del 2021 (Glasgow),a spingere sul tema è stato il blocco negoziale G77-Cina, l’80% della popolazione mondiale. E i paesi meno avanzati hanno fatto presente di non potersi svenare per le emergenze. Ma malgrado il meccanismo chiamato Santiago Network, lanciato a Madrid nel 2019, il blocco occidentale cerca scuse: «Vi diamo già aiuto umanitario nelle emergenze» (poco e mai sicuro); «Ci sono le assicurazioni come il Global Climate Shield» (costose, parziali).

Il loss & damage è nell’agenda provvisoria dei capi di Stato alla Cop27. Ma quale compromesso si raggiungerà? Ameno un impegno politico a stabilire un meccanismo che non sia basato sui prestiti? O un allentamento della morsa del debito estero il cui rimborso costa a tanti paesi cinque volte più delle azioni di protezione climatica?

ANCHE GREENPEACE INSISTE per l’istituzione del loss & damage, chiedendo inoltre ai paesi più ricchi di onorare l’impegno assunto alla Cop26: raddoppiare i finanziamenti per l’adattamento entro il 2025. Ma, fa notare il Cse, «la guerra e la crisi economica ed energetica potrebbero ridurre la volontà», già scarsa.

Eppure, oltre ai 400 miliardi di dollari erogati annualmente a livello globale per la produzione e il consumo di fossili, si potrebbe attingere da una miniera di spese che il merceologo e ambientalista Giorgio Nebbia avrebbe chiamato oscene: quelle legate al complesso militar-industriale. Ben 2.113 miliardi di dollari nel 2021, secondo «Trends in World Military Expenditure», l’ultimo rapporto dell’istituto Sipri di Stoccolma.

Dietro queste somme si nascondono le emissioni climalteranti del settore militare mondiale. Massicce, ma praticamente ignorate anche nella contabilità sulle emissioni. Nel 1997, al tempo del Protocollo di Kyoto, gli Stati uniti ottennero l’esenzione del settore bellico dall’obbligo di rendicontazione (e dagli impegni di riduzione), con il pretesto della «sicurezza».

I CALCOLI BASATI SUL CONSUMO di combustibili fossili per usi militari rivelano solo una parte del problema, e già potrebbero superare i 2 miliardi di tonnellate annue di CO2 equivalente. Poi ci sono la produzione di nuove armi, le infrastrutture, le basi e soprattutto lo sbocco naturale dei sistemi d’arma: le distruzioni di guerra.

Essendo altamente improbabili i bombardieri a energia solare, così come città e infrastrutture ricostruite con mattoni di argilla e canapa, è praticamente impossibile decarbonizzare davvero tutto ciò. Sembra invece possibilista una recente analisi pubblicata su Nature, che comunque conclude: «L’uso dei combustibili fossili da parte del settore militare continuerà ad aumentare per molti anni ancora».

Da tempo organizzazioni come World Beyond War, la Women International League for Peace and Freedom (Wilpf) e altre chiedono di spezzare questo circolo vizioso tra armi e caos climatico. Ridurre le spese e le emissioni militari e liberare denaro per i risarcimenti, la riconversione planetaria, la protezione della natura, i bisogni essenziali a partire dall’alimentazione (la Global Forest Coalition organizza vari eventi nel padiglione Cibo).
HA SCRITTO TAMARA LORINCZ (della Wilpf) nel rapporto Deep Demilitarization for Deep Decarbonization: «Ridimensionare il complesso militar-industriale e ripudiare la guerra è una condizione necessaria per salvare il clima, investendo piuttosto in comunità resilienti. Tutti i fossili ancora estratti siano usati per la transizione verso zero emissioni, non per le armi».

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