In quegli anni lontani, parlo dei primi ‘70, provavo una sottile invidia per il manifesto (in queste righe utilizzerò sempre questo nome per indicare sia il gruppo dei «padri costituenti», sia il quotidiano).

Ero un militante di Lotta continua e i rapporti tra le due organizzazioni erano tutt’altro che sereni. Eppure, per lungo tempo, avvertii quel sentimento di attrazione/rifiuto che, dell’invidia, costituisce la sostanza più intima.

D’altra parte, come autorevolmente detto da Rina Gagliardi, la medesima sensazione veniva vissuta da molti militanti del manifesto nei confronti di Lc e del suo spirito ribelle e libertario. E, non a caso, fu ancora Gagliardi a definire Lotta continua «uno stato d’animo», piuttosto che un soggetto politico.

In particolare, la mia, d’invidia, si indirizzava verso due elementi: innanzitutto il fatto che tra i fondatori del manifesto vi fossero persone nate negli anni ‘20 o, come nel caso di Aldo Natoli, nel 1913 (giusto l’anno di nascita dei miei genitori); mentre i nostri leader erano tutti degli anni ‘40.

L’anzianità del gruppo dirigente del manifesto non era considerata un handicap dai militanti della nuova sinistra che – contrariamente a quanto vorrebbe uno dei tanti stereotipi – non si consideravano e non si dicevano «giovani». E, in realtà, attribuivano scarso peso al connotato generazionale della mobilitazione, valorizzato piuttosto da osservatori e sociologi.

Per me, l’anzianità, era un elemento particolarmente attraente, proprio perché confermava come le buone ragioni della contestazione non fossero appannaggio esclusivo dell’età anagrafica; e come, nonostante l’apparente «selvaticheria» del movimento, la cultura e l’esperienza, derivanti da una vita lunga e intensa (si pensi ancora a quella di Natoli), fossero utili risorse della mobilitazione collettiva.

L’altro elemento invidiabile era proprio quel nome: manifesto. A me Lotta continua – nome amatissimo da Sofri e dai dirigenti tutti – non piaceva affatto: era il giustissimo slogan che concludeva i volantini distribuiti davanti alle fabbriche e alle scuole, ma non mi sembrava potesse essere l’appellativo di una organizzazione politica.

Questa mia insoddisfazione nasceva da una robusta tentazione burocratico-partitica, che conviveva con la vocazione allo spontaneismo culturale e politico, e da un gusto estetico attraversato da una pretesa di ordine.

Il manifesto – come nome, grafica e significato – era perfetto.

L’evocazione, che più classica non si può, della classicità comunistica, il senso di una visione fondata su intenti e valori e il suono di una esortazione alla lotta. In più, l’essenzialità di una parola sola, dove l’altra (l’articolo il) ha una funzione solo servente. Una sintesi felicissima di sobrietà e rigore che, anche allora (epoca di eccessi e ridondanze), richiamava un’eleganza antica.

Questa lunga digressione per dire che anche simili tratti biografico-estetici, a mio parere, hanno avuto un ruolo nel garantire vivacità e durata a un quotidiano tuttora vivo e vegeto. Tale perché ha saputo, nel corso di mezzo secolo, assicurare un punto di vista suo proprio, unico e irriducibile.

Le parole, come è noto, hanno questa sublime ambiguità: per un verso «costruiscono il mondo»; per altro verso, non sono più che convenzioni. La leader di Fratelli d’Italia, Giorgia Meloni, in un intervento alla Camera, ha potuto dire, come se nulla fosse, che il suo partito si sarebbe «seduto dalla parte del torto». La citazione di Bertolt Brecht, ripresa dalla più riuscita delle vostre campagne di promozione – e ridotta a pochade parlamentare – è stata, per me, come lo stridore del gesso sulla lavagna e ha fatto singhiozzare, immagino, qualche redattore del manifesto.

Ma, appunto, le parole sono lì, a disposizione di tutti, e il loro significato varia a seconda dei tempi, delle circostanze e delle intese linguistiche tra gli esseri parlanti. E, così, mi faccio una ragione anche di quel «comunista» orgogliosamente innalzato sopra la testata.

Francamente credo che oggi quel termine sia totalmente vuoto, dal momento che nemmeno può seriamente testimoniare di un individuale stile di vita o di una intransigente opzione morale. Oggi, esso è ridotto – Dio mi perdoni – a una sorta di civetteria culturale, correlata a nostalgie regressive, senso di superiorità morale e pulsioni conservatrici.

E, invece, il punto di vista del manifesto c’è ed è un altro: è necessario e addirittura irrinunciabile.

È radicale: nell’accezione marxiana dell’andare alla radice delle cose e dello scavare in profondità. E l’essere radicali spesso ha significato essere a-comunisti o anticomunisti. Non mi riferisco in alcun modo alle asperrime baruffe tra Pci e Partito Radicale: penso, piuttosto, alla comunista Rossana Rossanda, il cui adamantino garantismo era qualcosa di totalmente incompatibile con tutti i comunismi e i neo-comunismi, quelli realizzati e quelli utopici.

Oggi, la radicalità del manifesto è ciò che tutti i giorni offre attraverso una lettura (magari un solo articolo, ma è già tantissimo) che davvero sa andare alle radici. Un approccio, cioè, non convenzionale e non conservatore, che si esprime non solo nelle tematiche che gli sono più care (la fabbrica, le diseguaglianze, i movimenti sociali, le crisi internazionali), ma anche in alcune originali analisi economiche e persino nel trattare questioni squisitamente istituzionali.

Ecco, quell’approccio radicale del manifesto è un omaggio alla fedeltà verso un indomabile pensiero critico, che mi sembra più prezioso di qualunque – quasi sempre immaginaria – coerenza ideologica.

Dunque, auguri comunisti: ovvero radicalissimi.