Giorgia Meloni al comando. Anche delle riforme costituzionali. È direttamente la presidente del Consiglio che fa le convocazioni per ascoltare le opposizioni, una alla volta. Sfileranno nella biblioteca del presidente della camera, che avrà la veste dell’ospite, dalle 12:30 alle 18:30 di martedì prossimo.

Apre la sfilata +Europa, chiude il Pd. Andranno tutti, leader di partito e capigruppo (tranne forse Conte, convocato dal tribunale dei ministri a Brescia). Così la presidente del Consiglio incasserà, almeno, il riconoscimento del suo ruolo di guida anche nel campo delle modifiche costituzionali. Campo nel quale il governo dovrebbe entrare con molta discrezione, in teoria. In pratica Meloni soffre le accelerazioni della Lega sull’autonomia differenziata e i ritardi della ministra Casellati su quello che alla premier sta più a cuore: l’elezione diretta. Del presidente della Repubblica o del presidente del Consiglio. Purché sia elezione diretta.

COSÌ PER LE CONSULTAZIONI ha deciso di fare le cose in grande. Accanto a lei ci saranno i due vice presidenti del Consiglio Tajani e Salvini, la ministra Casellati evidentemente, il ministro per i rapporti con il parlamento Cirianni, i due sottosegretari di palazzo Chigi, Fazzolari e Mantovano, e il consigliere giuridico di Meloni, il professore di diritto pubblico Francesco Saverio Marini. Come pensa di affrontare la questione, la presidente del Consiglio lo ha detto più volte: parlare con tutti ma andare avanti «senza accettare veti». Che vorrebbe dire fare da soli. I numeri in teoria la maggioranza li avrebbe. Ma, ancora prima di preoccuparsi per il referendum costituzionale (che in quel caso non potrebbe evitare perché non raggiungerebbe i due terzi), c’è il recente capitombolo sullo scostamento di bilancio a dimostrare che non è il caso di azzardare troppo. Specie se si vuole tentare una modifica della forma di governo.

Perché nella sostanza è proprio di questo che si parla, una completa rifondazione delle istituzioni. Che sarà contenuta, a dar credito alla ministra Casellati, in un disegno di legge governativo pronto entro fine giugno. Con il contorno di un comitatone di esperti – sul modello di quello dei 61 messo insieme da Calderoli per i Lep – da riunire, anche pubblicamente.

NEL MERITO le posizioni tra maggioranza e opposizione sono assai distanti. Delle due ipotesi messe in campo dalle destre, la prima, quella del semipresidenzialismo, malgrado sia quella che campeggia in alto nei loro programmi elettorali, si può dire che stia tramontando. L’esca per agganciare l’opposizione o almeno una parte di essa – il gruppo di Renzi e Calenda andrà ancora unito alla consultazione – si chiama premierato. L’elezione diretta resta (figurarsi) ma dal capo dello Stato viene spostata al capo del governo. Un modello istituzionale che non esiste altrove e dove esisteva (Israele) è stato abbandonato. Nel presentarla, la presidente del Consiglio la descriverà come una formula «neo parlamentare», che somiglia a quel «parlamentarismo razionalizzato» che adesso prevale nel Pd. Salvo che l’elezione diretta non sta assieme alla sfiducia costruttiva, visto che sarebbe il destino del parlamento a dipendere da quello del premier eletto (che ha la fiducia degli elettori, non degli eletti).

Nelle dichiarazioni preventive i 5 Stelle non aprono neanche uno spiraglio alla trattativa sulle riforme, anche se nel concreto della vita parlamentare si stanno dimostrando assai più collaborativi del Pd (vedi il voto sui Csm delle magistrature speciali). L’assenza di Conte potrebbe tornare utile a tenere in piedi questo doppio registro. Il nuovo Pd di Schlein non ha ancora discusso una linea sulle riforme istituzionali. Ha cominciato a farlo su argomenti più specifici come il ritorno delle provincie, senza peraltro trovare ancora un’intesa. La segretaria ha fatto sapere che riunirà lunedì la segreteria. Se Schlein accettasse di far partire un dialogo con la destra dovrebbe mettere tra parentesi le dure polemiche sui temi istituzionali, come l’Autonomia di Calderoli (il disegno di legge è già in commissione al senato) e la ventilata abolizione del ballottaggio nei comuni. Ma potrebbe incassare come una vittoria la rinuncia al semipresidenzialismo. Altrimenti Meloni, che non può uscire dalle maxi consultazioni a mani vuote, potrebbe strappare un sì di massima almeno sulle procedure.

NEL METODO, infatti, è ancora possibile un’intesa sulla costituzione di una commissione per le riforme. Non una bicamerale redigente che per partire richiederebbe l’approvazione di una legge costituzionale, ma una commissione referente che gli scettici nell’opposizione vedono come una soluzione per allungare il brodo. Del resto le riforme costituzionali questo sono state per tutti i governi che hanno voluto promuoverle direttamente: un sistema per durare di più. O almeno provarci.