Non è così facile abolire il «redditometro». Almeno quanto è complicato dare una risposta definitiva a una delle lobby più influenti sul governo Meloni: i balneari. Ieri è fallito il tentativo di mettersi alle spalle il fantasma di uno strumento attraverso il quale il fisco può stimare il reddito presunto di un contribuente. Così come è stato per il momento vanificato quello di rassicurare i proprietari degli stabilimenti. Entrambi sono stati frenati dai dubbi del Quirinale, e da quelli emersi nello stesso governo con il ministro Raffaele Fitto. A loro avviso è inopportuno inserire norme evidentemente estranee a un decreto come quello sulla «Coesione» in discussione che dovrebbe riformare la gestione dei fondi europei.

Da emendamento, quello sui balneari è stato trasformato in un ordine del giorno. Il «redditometro», invece, dovrebbe trovare una collocazione più appropriata in un decreto legislativo attuativo della delega fiscale, correttivo del concordato preventivo, atteso al Consiglio dei ministri domani. Probabilmente il testo non conterrà ancora la cancellazione dello strumento promesso negli ultimi giorni della campagna elettorale per le europee dopo una rocambolesca commedia degli equivoci che ha visto protagonista il viceministro dell’Economia Maurizio Leo. Dovrebbe essere la maggioranza in parlamento a indicare la strada per l’abolizione. La stessa che dovrà cercare un modo per conciliare la rimozione del «redditometro» – che vive nell’incertezza da anni – con la «lotta agli evasori totali» promessa da Giorgia Meloni prima del voto. Forza Italia, che ha fatto della battaglia sul «redditometro» una bandiera sembrava ieri rassicurata dalla soluzione. Così anche la Lega che ha innalzato il vessillo dei balneari. L’ordine del giorno impegna il governo ad adottare una «mappatura» e il «riordino del settore». La soluzione, per ora, è rinviare i problemi.