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Reddito di base, per una vita autodeterminata

Reddito di base, per una vita  autodeterminataHannover, manifestazione per il reddito di cittadinamza – Ap

Germania Nell’intento dichiarato della riforma, illustrato dal ministro del lavoro Hubertus Heil, il Bürgergeld avrebbe dovuto sottrarre i beneficiari a quella minaccia sanzionatoria che con il sistema Hartz IV li costringeva a rincorrere ed accettare senza discutere lavori precari, squalificati e miseramente retribuiti

Pubblicato quasi 2 anni faEdizione del 17 novembre 2022

Il reddito di cittadinanza è un metro di civiltà, è il tema sul quale misurare l’effettiva comprensione dei rapporti sociali contemporanei e il livello di una cultura politica non accecata dall’ideologia e dalla colpevolizzazione moraleggiante della povertà. Come quella che ispira, nel più triviale modo possibile, l’attuale governo italiano.

La coalizione che governa a Berlino aveva appena approvato al Bundestag, il parlamento federale, una versione piuttosto avanzata del reddito di cittadinanza (Bürgergeld) destinata a sostituire quel ricattatorio sistema di assistenza alla disoccupazione e collocamento denominato Hartz IV, varato a suo tempo dal governo guidato dal socialdemocratico Schroeder. Ora la camera dei Länder, grazie alla prevalenza dei partiti democratico-cristiani, ha bloccato il progetto, rinviato così a una commissione di mediazione che inevitabilmente ne ridurrà la portata.

L’intento dichiarato della riforma, illustrato dal ministro del lavoro Hubertus Heil, non consisteva solo nel salvaguardare le persone in difficoltà senza sottostare a vessazioni burocratiche e a una umiliante sequela di obblighi e controlli, ma soprattutto quello di offrire la possibilità di costruirsi, senza l’incombere di una rigida disciplina eterodiretta, «una vita autodeterminata», magari riprendendo o concludendo la propria formazione professionale e culturale. In altre parole il Bürgergeld avrebbe dovuto sottrarre i beneficiari a quella minaccia sanzionatoria che con il sistema Hartz IV li costringeva a rincorrere e accettare senza discutere lavori precari, squalificati e miseramente retribuiti. Più in nome di un arcigno moralismo che di una qualche razionalità produttiva. Si trattava insomma di sottrarre gli inoccupati a una condizione di ricatto che andava a tutto vantaggio di quei datori di lavoro che prosperano sulla magrezza delle retribuzioni e sulla precarietà.

Proprio nell’interesse di questi ultimi si è levata l’opposizione della Cdu-Csu, con l’intramontabile argomento di tutti i conservatori secondo cui un reddito di cittadinanza troppo confortevole e al riparo da strumenti di costrizione e soffocante sorveglianza avrebbe disincentivato la ricerca di un lavoro. Di quel genere di lavoro squalificato e squalificante che il disegno di legge della maggioranza di governo intendeva appunto disincentivare non rivestendo, fra l’altro, alcuna importanza nello sviluppo economico del paese contrariamente a una estensione dell’offerta formativa e professionalizzante.

A questo scopo erano stati previsti benefici come la copertura dei costi di affitto e di riscaldamento, nonché la compatibilità dell’erogazione del reddito con una situazione patrimoniale fino a 60.000 euro. Un sostegno che intendeva così rivolgersi a dei cittadini inoccupati e tendenzialmente capaci di una partecipazione qualificata alla vita sociale e produttiva. Non a dei paria legati mani e piedi alla prescrizione burocratica di un modello di vita parco e “virtuoso”. Non è un caso che proprio contro questi ultimi aspetti sia insorta l’opposizione della destra, disposta a concedere, semmai, solo un modesto aumento monetario del sussidio.

Di tutto questo in Italia non si è vista neanche l’ombra. Ossessionati dalla mitologia dei “furbetti” e dei lazzaroni, perfino i più strenui fautori del reddito di cittadinanza, i 5 Stelle, ne hanno elaborato una versione infestata di restrizioni, sospetti, obblighi e misure disciplinari. Con lo scopo di “sconfiggere la povertà” e non anche di incidere sulle gerarchie e sulle più vessatorie convenienze del sistema produttivo. Dunque una versione debole e, nonostante ogni prudenza, completamente esposta agli attacchi della destra che infatti si accinge ora a demolirla. Comunque con gravi conseguenze sociali.

Stretto d’assedio dalla destra e da una sinistra che non le è certo seconda quanto a fanatica difesa dell’etica del lavoro (riassunta nel ridicolo slogan del “lavoro di cittadinanza”) il reddito di base si è trovato ad essere sostenuto solo dal bisogno dei suoi beneficiari e da chi si proponeva, tra innumerevoli distinguo, come sua sponda politica. Nella sinistra maggioritaria, affezionata alla fata morgana della piena occupazione o alle innate virtù del liberismo, il basic income non ha mai incontrato particolare simpatia, quando non è stato decisamente avversato, sbandierando l’articolo primo della Costituzione.

Il fatto è che il reddito di cittadinanza non è solo una misura di sostegno, ma una cultura politica che cerca di misurarsi con le profonde metamorfosi del sistema produttivo, con l’evolversi della domanda sociale e delle aspirazioni collettive e individuali, che cerca di immaginare una trasformazione del welfare all’altezza di nuovi problemi, nuove condizioni e nuove soggettività. Questa cultura politica è del tutto assente nel nostro paese dove sull’argomento imperversa la più vieta retorica. E solo il timore di forti reazioni sociali nel Meridione trattiene il governo della destra dal togliere immediatamente il poco che era stato concesso.

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